Bianco è colore
della morte, per una volta.
Azzurro è quello
dei tanti soccorritori che si sono alternati in quella sfortunata landa
per cercare (e per undici volte, a riuscire) di salvare vite umane.
Nero, ancora una
volta, è quello dei tanti giornalisti (o presunti tali) che
bivaccano nei pressi degli ospedali o sul luogo della tragedia o
davanti alla casa delle vittime o addirittura nella chiesa dove si
officiano le esequie funebri: un colore per cercare di descrivere
come il dolore sia stato insultato con l’offesa più inutile.
Quella di diventare merce. Merce rara e ricercata.
Guardando i vari
contenitori pomeridiani e serali che si susseguono in questi giorni,
verrebbe da pensare che il dolore sia quasi provocato, anelato,
cercato.
Nell’oramai annoso
dibattito sullo spettacolo del dolore si parla – e non per caso –
molto di etica e di morale e pochissimo di economia.
Perché il dolore è
proprio questo: una merce che fa vedere i telegiornali e vendere i
giornali.
In fondo, questa
banalità – tutto è merce – è la più inconfessabile delle
leggi che governano le nostre povere vite. Più ineludibile della
legge marziale, più mutilante del bisturi.
Ammettere che il
dolore si compra e si vende, come qualsiasi altro istante e qualsiasi
altra cosa, vorrebbe dire ammettere che viviamo come disperati in una
società disperata.
E, forse, è proprio
così...
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