giovedì 31 maggio 2018

Una vecchia canzone di lotta







È uscita quasi per caso dal gracchiare confuso di una stazione radio malsintonizzata. È uscita tra omelia monotona di Radio Maria e le notizie del traffico sulla rete autostradale. Saranno stati dieci anni che non la sentivo. Quasi un afflato inudibile, ma per me è stato come uno squillo di tromba. Era “Pablo” di Francesco De Gregori. Roba da pugni nello stomaco.

Per quanto mi riguarda l’opera di quest’uomo è solo quella canzone. Null’altro. Anche se ho passato la mia infanzia a canticchiare le sue canzoni, Pablo è stata la mia colonna sonora.
Lo spago sulla valigia.
Il fumo diviso lontano da casa.
La moglie ingrassata come da foto.

L’ascoltavo solo una volta al giorno, per centellinare le emozioni. Quella canzone ha operato in me una rivoluzione libertaria.
È l’Anarchia ciò che mi resta di Pablo. Che non è una bandiera, non è un comizio, non una presunzione e nemmeno un programma politico; di certo non un graffito su un muro, ma nell’anima. Ecco, una probabilità di redenzione. Che riguarda gli uomini e le cose degli uomini, che riconosce futuro nel mondo perché è capace di immaginarlo. Hanno ammazzato Pablo, Pablo è vivo.

Ho sentito l’ombra di tutto questo inciampare nella mia vita a quattordici anni. Mi ero messo per strada, così come fanno i ragazzi che vanno in cerca di niente. Sono inciampato nel solito bar, dove all’interno si vendevano vini bianchi e spume al ginger. Fuori dalla porta c’era una reclame del Rosso Antico, tre sedie e un juke box.

C’erano facce da sbandati (tra cui la mia) che se ne stavano ad ascoltare una canzone. La canzone diceva: mio padre seppellito un anno fa, nessuno più coltivare la vite...
Ascoltavo quella canzone come se fosse la mia voce, perché la sua voce aveva rotto il silenzio che io covavo dentro. Mi sono fermato accanto a quel juke box e l’ho imparata a memoria, senza intenzione. Ora non saprei dire cosa sentivo di quella canzone e come potesse avermi scelto per forzare il mio silenzio. So che davanti a quel bar ho cambiato età, e quella nuova non è ancora conclusa.

Pablo è stata la voce del mio silenzio. Anche se scrivo per campare, rimango pur sempre un uomo che non ha abbastanza voce. Non perché possa in coscienza pensare di bastare anche al mio personale bisogno di libero pensiero.

E tutte le volte che sento quel canto anarchico, mi si accappona la pelle.
Quel canto di libertà che in molti si sentono in dovere di ascoltare a pugno chiuso...


lunedì 28 maggio 2018

Scappa, Giuseppe Conte, scappa...





Probabilmente non ha molto senso dirlo oggi, ma mi sento vicino a Giuseppe Conte. Provo la solidarietà che ho avvertito sabato sera nei confronti del portiere del Liverpool.
Gli eroi sfiorati come Conte hanno un nemico comune a tutti gli uomini – il proprio ego, nello specifico, manifestato nel taroccamento del curriculum - e uno speciale e assai peggiore, ovvero il famoso senso di responsabilità. Al peso dell’amor proprio si somma il fardello delle pubbliche attese.

Così, quando ho visto che, finalmente, ha lasciato il Quirinale con i suoi faldoni in mano ho pensato istintivamente che era evaso. Me lo sono visto appena uscito dalle severe stanze istituzionali come in certi film americani con il vestito a righe e la lima ancora in mano, che corre a perdifiato verso il confine con il Messico. Poi, la seconda immagine, metafisica, è lui che dà un’ultima occhiata al Paese, una timida sbirciatina con un ghigno beffardo al triste spettacolo di Di Maio e Salvini e Martina e Berlusconi e Renzi.
E scorrono i titoli di coda.

Il primo che mi chiede adesso (e qualcuno l’ha già fatto) un giudizio politico e etico sullo spettacolo del quasi premier Conte, lo mando affanculo senza passare dal via.

Vorrei solo un cammeo, una particina minore nel film di “Giuseppe l’evaso”.
Solo un piano sequenza, io e lui, in un baretto dalle parti di Tijuana. Gli offrirei un doppio rum.
Alla salute, companeros, gli direi.
Alla tua salute...

venerdì 25 maggio 2018

Brunetta a #cartabianca







Renato Brunetta è in forma strepitosa, lo abbiamo visto non più di un paio di giorni fa Chez Bianca Berlinguer. Appare perfino ringiovanito. Le disgrazie lo rafforzano, le sconfitte gli donano vigore, l'ostilità popolare lo conforta.

La sua figura, questo va detto, è stata sottovalutata. Forse per via di quella inefficace prestanza fisica, forse per quel suo modo stridente di sorridere che lo fa assomigliare più ad una iena che ad un essere umano, ma sempre lo abbiamo catalogato come il fido scudiero di Berlusconi.

Non è così: oramai risulta chiaro che Renato Brunetta è sempre stato il capo. Lui era il Don Chisciotte, Berlusconi il Sancho Panza (la Santanchè, Dulcinea?). Sono stato poco attento, bastava dare un'occhiata alle caratteristiche teatrali: era Brunetta che aveva quella vena di follia che lo faceva sempre parlare a vanvera, negando anche l'evidenza. Il Cavaliere è grassottello e fanfarone: la tipica spalla teatrale condannata ad una fine grama.

Guardiamo come è andata a finire: “Sancho Panza” B. è stato disarcionato, mentre Renato “Don Chisciotte” Brunetta è ancora in sella, vaniloquente e fiero, e affronta le telecamere con sublime serenità, come chi sa che non è la pedestre realtà il terreno su cui misurarsi, ma i sogni e i mulini a vento.

E infatti, mentre Berlusconi impreca, bofonchia e bestemmia il Fato, l'altro continua solo e composto la sua delirante cavalcata.

Non c'è che dire: la tragedia gli dona, anche fisicamente. Fateci caso, sembra anche più alto...




martedì 22 maggio 2018

Il grande vuoto








Destra, sinistra e Cinque Stelle hanno ragione: il giornalismo politico, almeno in Italia, è pettegolo, approssimativo, spesso fazioso, quasi sempre inutile.

D'altro canto nemmeno Toqueville riuscirebbe a scrivere articoli epocali ogni giorno, soprattutto rubando mezze frasi nei ristoranti frequentati da politici, nei locali che ospitano parlamentari, rubacchiando due righe nei tabulati telefonici. Di più: nella maggior parte delle occasioni, i giornalisti se ne stanno comodamente seduti al desk, facendo il refresh alle ultime notizie delle agenzie di stampa. Segue il classico pastone con le notizie che si ritiene più succulente.


Ma il problema – se questo stato di cose si può catalogare nella categoria “problemi” - non interessa solo la politica. Spesso anche i calciatori si lamentano per un caso “montato ad arte”, così come attori, cantanti e tronisti denunciano la vita impossibile che sono costretti a vivere a causa di paparazzi e giornalisti un po' troppo appiccicosi. D'altronde bisogna anche ammettere che senza i giornalisti e le prime pagine, difficilmente le categorie sopraelencate (politici, calciatori, tronisti) riuscirebbe a condurre la vita dorata che i cronisti raccontano ogni giorno. Gli uni ostaggi degli altri: un'arma a doppio taglio a causa della quale non si capisce più chi è ostaggio di chi.

Un rimedio c'è, ma è improponibile: basterebbe ammettere che non sempre, almeno non ogni giorno, si ha qualcosa a dichiarare e conseguentemente costringere i cronisti a recarsi dai propri direttori per proporre un triste “nulla di notiziabile”.

Ci sono giorni che la vera notizia è il silenzio: la pagina vuota, terrore di tutti gli operatori dell'informazione. Una sorta di “giorno bianco”, utile per ricaricare le pile e per fare stagionare pensieri e parole. Ma è utopia, non-senso alla stato puro, soprattutto nell'era della quantità, dove l'assenza è vista come una colpa. Così, quotidianamente, giornalisti, politici, nani e ballerine, producono parole per puro horror vacui.

Chilometri di inchiostro per paura che il vuoto ci inghiotta. Proprio quel vuoto che potrebbe salvarci...

domenica 20 maggio 2018

Il futuro è adesso








Forse è meglio cambiare la nostra ottica. Sarebbe ora di trasformare la famosa angoscia del futuro in una sana – e più saggia – paura del presente. I fantasmi di cui parliamo oggi, sono sotto i nostri occhi.

Sui treni nessuno si può sentire sicuro, men che meno i controllori, picchiati crudelmente con feroce puntualità da risme di delinquentelli di tutte le età, razze e religioni.
A scuola pseudo-gang e simil-bulli si divertono a spaccare gli arredamenti (e le facce dei professori) per il solo gusto di accumulare contatti su Internet. In passato qualche pugno e calcio è toccato ad un ragazzo diversamente abile (e non immaginate nemmeno quanti click si è meritato).
Preti che abbordano ragazzini e spacciano cocaina, fregandosene bellamente di inoculargli l’Aids.

A Brescia padre e figlio spezzano il collo ad una ragazza di 25 anni, rea di aver detto no ad un matrimonio combinato.
A Roma, disabili e baristi pestati perché rei di lesa maestà nei confronti delle famiglie che comandano il quartiere.
Delle donne uccise da un amore malato, oramai abbiamo perso i conto.

A questo aggiungiamo il non trascurabile particolare del continuo - noioso - vociare tra istituzioni e giudici, tra giornalisti e politica, tra forze dell’ordine e avvocati, tra Cassano e il suo procuratore.

La felice Italia, di cui si è abbondantemente scritto in passato, ha felicemente partorito i suoi agghiaccianti figli.

Che cosa possiamo fare, adesso?
Non lo so, e nessuno può dirlo con precisione, nemmeno Morelli o Crepet.
Ma c’è almeno una cosa che possiamo fare da subito: smetterla di scrutare l’orizzonte con aria pensosa e preoccupata.

Guardare fuori dai portoni, davanti alle nostre auto, all’interno delle nostre scuole, tra i palazzi delegati ad ospitare le più alte istituzioni.

Il futuro, amici miei, è già arrivato. Ha la testa vuota e le mani pesanti.
E ha fretta di farsi conoscere...