Probabilmente
non ha molto senso dirlo oggi, ma mi sento vicino a Giuseppe Conte.
Provo la solidarietà che ho avvertito sabato sera nei confronti del
portiere del Liverpool.
Gli
eroi sfiorati come Conte hanno un nemico comune a tutti gli uomini –
il proprio ego, nello specifico, manifestato nel taroccamento del
curriculum - e uno speciale e assai peggiore, ovvero il famoso senso
di responsabilità. Al peso dell’amor proprio si somma il fardello
delle pubbliche attese.
Così,
quando ho visto che, finalmente, ha lasciato il Quirinale con i suoi
faldoni in mano ho pensato istintivamente che era evaso. Me lo sono
visto appena uscito dalle severe stanze istituzionali come in certi
film americani con il vestito a righe e la lima ancora in mano, che
corre a perdifiato verso il confine con il Messico. Poi, la seconda
immagine, metafisica, è lui che dà un’ultima occhiata al Paese,
una timida sbirciatina con un ghigno beffardo al triste spettacolo di
Di Maio e Salvini e Martina e Berlusconi e Renzi.
E
scorrono i titoli di coda.
Il
primo che mi chiede adesso (e qualcuno l’ha già fatto) un giudizio
politico e etico sullo spettacolo del quasi premier Conte, lo mando
affanculo senza passare dal via.
Vorrei
solo un cammeo, una particina minore nel film di “Giuseppe
l’evaso”.
Solo un piano sequenza, io e lui, in un baretto dalle parti di Tijuana. Gli offrirei un doppio rum.
Solo un piano sequenza, io e lui, in un baretto dalle parti di Tijuana. Gli offrirei un doppio rum.
Alla
salute, companeros, gli direi.
Alla
tua salute...
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