mercoledì 21 dicembre 2016

Breve storia di un Amore



Sally cammina per la strada senza nemmeno
guardare per terra
Sally è una donna che non ha più voglia
di fare la guerra
Sally ha patito troppo
Sally ha già visto che cosa
ti può crollare addosso...

Non c'è stato nulla da fare: mia figlia Chiara non ha potuto fare altro che sorbirsi il mio canticchiare. Chiara non è affatto contenta che io canticchi per strada. Lei è una bambina assai attenta al pudore (posizione mentale sbagliata, in quanto mi ritengo molto intonato). Questa volta no: si è dovuta sorbire una vecchia canzone. Questo perché certe volte solo le canzoni hanno il potere di essere più attinenti a ciò che ti capita di sentire in cuor tuo.
Era una giovane donna, non bella, non interessante. Tiene in braccio una bambina, una bambina piccola, scura come la madre, che le sonnecchia sulla spalla. Tra le mani regge un passeggino, un enorme passeggino ripiegato. È stanca, è sudata; sono le due del pomeriggio e aspetta l'arrivo dell'autobus cercando di ripararsi dal sole all'ombra della lurida pensilina. Guarda la sua bambina, guarda in su, verso la luce. Il suo sguardo è mite e buono, e la stanchezza e il sudore le segnano il viso. Ma non lo sguardo.
Arriva il tram e le persone in fila – tra cui io e Chiara – si avventano sulle portiere. Siamo furenti di ritardo, di afa, di scontento. La giovane donna resta lì, sotto la tettoia, a guardare in su. Chissà in grazia di quale illuminazione capisco, torno sui miei passi e le chiedo se per caso ha bisogno di una mano. Domanda idiota: come potrebbe farcela da sola? Ma lei non si risente della mia stupidità: sorride appena e dice sottovoce: “Sì”. Seduta davanti a me e Chiara, nel fetido abitacolo dice solo: “È più difficile con i treni, lì non trovo mai nessuno”. E sorride, ancor una volta, prima di appisolarsi assieme alla sua piccolina. Un pacco di tenerezza così limpida da sembrare animale, buttato su un sedile macchiato di qualcosa che non voglio sapere.
Una vita che non conoscerò mai, ma che posso solo immaginare oltre la soglia del suo silenzio.
Ha un marito, un marito che la ama?
Ha una madre che l'aiuta?
Ha forse un lavoro?
E questo suo viaggiare eroico – uscire di casa, prendere l'autobus, scendere dall'autobus, accudire la sua bambina, nutrirla da sola, aspettando in silenzio che qualcuno capisca che ha bisogno di essere aiutata – questa sua inesorabile fatica, rappresenta la sua vita?
Ci sarà gioia da qualche parte per lei e la sua figliolina?
E se ci sarà del pianto, chi si occuperà di placarlo?
Non lo saprò mai, non lo saprà mai nessuno. Una silente vita eroica.
Ho voluto bene a quella giovane donna non bella, non affascinante, non interessante. Non ho provato altro sentimento più sofisticato, più attinente, più socialmente proficuo. Non pietà, non solidarietà, non comprensione: le ho solo voluto bene. Le ho voluto bene in totale gratuità, partecipando alla sua vita per quei pochi minuti in modo così profondo.
E mi sono chiesto se non sia ridicolo pensare che la comunità può non solo fornire servizi, garantire solidarietà, essere all'occorrenza pietosa, ma anche voler bene. Forse non è ridicolo, ma è irragionevole, lo so, immaginare una comunità affettuosa.
Stavo pensando proprio a quello, quando mi è venuta in mente una vecchia, forse stupida, canzone.

Nanananà, nanananà, nanananà.

Sally cammina per la strada...

lunedì 19 dicembre 2016

La mosca



Si avvicina al foglio a piccoli passi. Muovendo le zampe al ritmo nascosto di una musichetta sincopata. Poi sale sulla tastiera. Si arrampica sulla Q ragionando sul da farsi. Improvvisamente sceglie la diagonale, strisciando sulla S e sulla X. Come estremo sberleffo alla mia mano, poggiata a qualche centimetro, si adagia sulla barra spaziatrice, percorrendola in tutta la sua interezza. Non muovo la mano, come se il ragionare sui tragitti quotidiani di una mosca potesse riempire il vuoto concreto del foglio bianco. Incipit, corpo centrale, chiusa. Tutto insieme. Con la precisione di un computer cui sono stati immessi i dati, con l'input di ordinarli. Click.
Si arrampica sulla stampante sfidando la risma di A4 pericolosamente in bilico su di essa. Delusa scende sul tavolino, preferendo lo sfavillio colorato di gomme e temperini, penne e lampostil. Mi chiedo dove vanno a finire le e-mail cestinate, dove si nascondono per sfuggire allo spazzino elettronico. Tra quali file? In quale pertugio di quale server? Troveranno ancora qualche mouse caritatevole che, cliccandole, possa dar loro voce e visibilità? Il mio cervello funziona al ritmo del ventilatore asmatico che frulla sopra la mia testa. Il silenzio sta avanzando dai quattro angoli della stanza. Sta per stritolarmi. Anche dalla finestra non filtra alcun rumore chiaro. Solo suoni feltrati: strascichii.
La vedo, la osservo, capisco che sta prendendo una decisione: con un volo arcuato va a sfidare il pesante drappeggio della tenda, imitando per qualche istante il muoversi impazzito delle falene. Poi si arrende zampettando nella concavità ombrosa del tessuto.
Aspetto l'attimo, lo stimolo che ti fa diventare le dita incontinenti. E batti sulla tastiera come un fabbro. Come quando campavo scrivendo per la televisione. Indugiavo sull'apertura del notiziario fino a pochi minuti dalla messa in onda. Come il paracadutista coraggioso che aspetta gli ultimi istanti utili per tirare la cordicella. Non sempre funziona, però.
La mosca fa capolino dalla piega più profonda e inizia a disegnare arabeschi tra le volute di fumo della sigaretta. Poi si avvicina alle pale del ventilatore, per nulla intimorita dalle sciabolate. Lo spostamento d'aria blocca per un istante il volo e la mosca rimane ferma come un'aquila controvento. Spicca il volo, stranamente decisa su traiettoria e atterraggio. Sceglie la foto, quella di Chiara e Giusy, sorridenti tutte e due. Eravamo in montagna; sullo sfondo paesaggi da cartolina: verde, blu, in lontananza il bianco delle nevi perenni. Passeggia sul berretto di Chiara, di diverse misure più grande. Sembra annusare l'acrilico blu, per nulla soddisfatta del risultato olfattivo. Giusy guarda perplessa, gli occhi paiono stringersi impercettibilmente, per la rabbia rivolta a quell'insetto che ha l'ardire di importunare la bimba, la sua bimba.
Quel giorno andammo nel mondo incantato della malga Fane, Chiara, cinque anni di capricci, non ne voleva sapere di arrampicarsi su per la costa. Si mise a piangere, buttandosi platealmente a terra, piena di tensione selvatica. Il primo tentativo per normalizzare la situazione toccò a me; dissi qualche parola, ma avevo un tono ridicolo, da fiction di terz'ordine. Mi ascoltavo dal di fuori e mi facevo rabbia. Parlando mi sembrava di fare gesti sbagliati o fuori sincrono, il tutto accentuato dal silenzio prodigioso della montagna.
Ci pensò Giusy a farla ritornare sulla sua decisione. La prese in braccio modulandole melodie sperimentate nel tempo; un fado dolcissimo, languido. Riusciva ad ipnotizzarla, a portare il suo respiro al minimo. Un miracolo, quasi. Poi Chiara si decise e si avviò su per il sentiero, con passo deciso.
La sera, quella sera, Chiara si addormentò presto, tutta presa nei suoi sogni infantili. Noi raggiungemmo un pezzo di prato, di fianco alla bellezza minerale di un torrente.
Si sentiva stridere le civette, cantare qualche raro grillo. C'erano alberi che, baciati dalla luna, emergevano prepotentemente dal paesaggio.
Il cielo sembrava vicinissimo, molto più vicino della malga Fane. La notte era di una bellezza difficile da descrivere. Immensa, sonante nel suo vuoto siderale. Ti senti parte di una lavagna vergine che si lascia imprimere da qualsiasi fruscio, gemito, odore. Sono gli aromi e i rumori, le scritture di una notte di giugno. E noi due eravamo lì, apposta, per lasciarcene imprimere. Forse eravamo un po' dispiaciuti di avere occhi e narici così minorati rispetto alle civette, ai grilli. Rispetto all'immenso respiro del bosco.
Ci siamo seduti nel mezzo del prato: la terra era dura, ma lasciava trasudare l'ultimo tepore diurno. Nella collina di fianco a noi, un barbaglio infinitesimale di luce, lasciava intendere la presenza di un'auto: ma era l'unico indizio tecnologico nell'Universo che avevamo di fronte. Questo lapillo mi diede la forza di rollarmi una sigaretta.
Guardavo le stelle, fumando.
Faceva freddo.
Faceva bello.
Abbiamo guardato le scie degli aerei, cercando di indovinare le destinazioni. Erano tante le scie che passavano sopra di noi: cocci di vita con le loro valigie, i loro pensieri, le loro speranze. I loro drammi, quotidiani e straordinari. Quelle strie bianche sono il nostro spettacolo per farci pensare alle loro vite. Alle nostre vite.
A voce bassa, come soldati in trincea, abbiamo parlato dell'Universo Mondo. Con gli occhi fissi abbiamo sviscerato lo scibile intonso: il tempo, l'anima, il bene e il male. Abbiamo parlato dei figli, della vita e della morte. Della focaccia e dello strudel. Del sesso e dell'amore e dell'affetto e della complicità. Del destino. Man mano che il discorso si srotolava nel buio, qualche parola, inevitabilmente, si apriva un varco verso l'incontenibile altezza che ci sovrastava.
Fin dove ci potevamo arrampicare in una notte così, se tra noi e il cielo c'era solo un'occhiata?
Ci siamo arrampicati, è ovvio, quasi sino a dio. Solo per constatarne l'inevitabile assenza.
Per due soldati in trincea, come me e Giusy, non è per nulla semplice ammettere che non c'è il Generale. Da nessuna parte. Almeno, noi non l'abbiamo trovato.
Almeno non quella volta. E sì che quella notte l'abbiamo anche cercato. Abbiamo scandagliato il cielo per cercarne la presenza, anche un minimo indizio. Merda, non l'abbiamo trovato. Almeno non quella sera.

La mosca è stufa della malga Fane. Dopo un ultima danza frenetica lascia la foto. Indovina il pertugio, un uscita segreta. Spicca il volo e se ne va...

martedì 13 dicembre 2016

Il funambolo



In quel momento la fune ondeggiò. Forse un movimento sbagliato, un lieve sbilanciamento, un refolo di vento filtrato dal tendone. L'equilibrista riprende subito la posizione, grazie anche all'asta bilanciatrice.

Il pubblico, in maggioranza bambini, trattiene per un attimo il respiro. Alcuni, addirittura, soffiano dalla parte opposta all'ondeggiamento. Un eccesso di mutuo soccorso. Ma, d'altronde, il numero principale dello spettacolo merita questi attimi di suspense. Una fune che va da una parte all'altra del tendone. Ad occhio e croce possono essere 25, forse 30 metri. Nel vuoto. L'equilibrista, e qui sta l'eccezionalità dell'attrazione, rifiuta l'ausilio della rete, quale estrema difesa dal fallimento del numero. Solo il vuoto, la fune. E poi l'omino, almeno così sembra visto lassù. Centosessanta, al massimo centosessantacinque centimetri. L'omino con quell'asta, lunga e incurvata ai lati. Quasi una smorfia di un faccione, uno smile che ha subìto un torto inaspettato. Solo un momento, poi prosegue il suo cammino. A piedi scalzi, con la fune che è un tutt'uno con l'arto inferiore.
Sotto di lui c'è anche il figlio Matteo. Per lui quell'uomo al confine con il cielo è un gigante. Rischia la vita per un piatto di lenticchie, ma, per dodici minuti, papà è un eroe. Un superuomo, uno di quelli che ti fa trattenere il respiro. Non importa se la carne si mangia una volta la settimana. Una vita romanzata; o meglio, romanzabile, se ci fosse uno scrittore che si interessasse ad un povero funambolo.
Quasi un pagliaccio, con quella calzamaglia lisa e sbracciata, che mette clamorosamente in risalto le protuberanze inguinali. Quasi un saltimbanco per via di quelle movenze fuori sincro sulla fune di 25 millimetri di spessore da attraversare con l'equilibrio addestrato della ballerina. Matteo non si è mai perso una esibizione. Così la chiama: esibizione, come lo spettacolo di una rock star. Dodici anni di esibizioni sempre con il solito batticuore, quello del quarto minuto, proprio nel bel mezzo della fune. Un coupe de theatre da artista consumato; quel tentennamento, quello sbilanciamento calibrato, che solo un lieve ondeggiamento della pertica riesce a raddrizzare. Un rischio voluto e calcolato in vent'anni di professione. È lì, al quarto minuto che i bambini mollano i pop corn e il gelato lascia lo stato solido per entrare nel mondo dei liquidi iperzuccherati.
Mamma se ne è andata. Troppo dura quella vita. Troppo dura e poco remunerativa. Sempre su quella roulotte, con quei vestiti che fanno sembrare la vita come un continuo carnevale. Odore di disinfettante e lontani minestroni. Niente rancore, disse al marito, ma ognuno per la sua strada. Gli disse che era meglio rimanere solo amici: non mancava nulla a quello stereotipo, né la banalità della formula, ne il tono nel pronunciarlo. Ognuno per la sua strada. Lei per quella, bella asfaltata, che porta a Sestri Levante, dalla mamma e dai fratelli, in una villetta a due piani proprio di fronte al lungomare. Lui in quella polverosa degli spiazzi messi a disposizione dai Comuni. Affanculo anche le promesse di amore eterno fatte in quel surreale matrimonio tzigano.
Matteo scelse con gli occhi fatati dei dieci anni. Scelse la polvere e le esibizioni.
Una volta, seduto a fianco di Matteo, c'era un suo compagno di classe; o meglio un compagno di una delle tante classi sparse per tutt'Italia frequentate dal bambino nel corso dell'anno. Appena passata la suspense del quarto minuto, gli toccò lievemente la spalla con la delicatezza del giocatore di Shangai e gli disse, lo vedi quell'uomo, quello là in alto? Quello è mio padre. Lo disse con un orgoglio smisurato, gonfio di gratitudine per quel funambolo di centosessanta centimetri. Nella sua intonazione di voce, c'era il desiderio di stupire.

Ma i bambini sono terribili, Matteo non lo sapeva. Non conosceva ancora il lato B della vita. Il giorno dopo, in classe, appena entrato, guardò la lavagna, come la stavano guardando tutti i suoi compagni. Aleggiava un'aria da giri chiusi, intese a sguardi su basi già stabilite. Sulla lavagna c'era scritto, “Matteo è uno zingaro e puzza”. Una vita già delimitata da pregiudizi mai verificati.
E pensare che quel giorno era arrivato anche prima. E pensare che si era anche stirato il grembiule da solo con l'aiuto di una sedia per arrivare all'asse. Si era fatto la riga nel mezzo dei lunghi capelli corvini, una spruzzatina di acqua di colonia, sottratta nottetempo a papà, e via, a scuola. Era convinto che i suoi amici lo avrebbero guardato sotto una luce diversa. Effettivamente fu proprio così: ma quella luce era sinistra, medioevale, sgradevole.
Da quel giorno non disse più nulla ai suoi compagni. Imparò presto a schermare tutti i sentimenti. Zitto e immobile, limitandosi solamente ad assorbire movimenti e frammenti di discussione tutt'intorno. Elemento estraneo in un meccanismo oliato. Aveva un passo da terreno minato anche nella più innocua delle occasioni. In un certo senso diventò adulto. A dieci anni e qualche mese.
Anche quella sera vide qualche suo compagno di classe. Tutti abbracciati alle proprie mamme, sorridenti, coccolati. Stirati e pettinati. Fruscii di buone stoffe. Non quella divisa da domatore di circo di tre misure più larga. Non con quella cassetta di legno appesa al collo piena di bibite e noccioline. In una pausa, la mamma di uno di quelli richiamò la sua attenzione con un semplice schiocco delle dita. Matteo si calò il berretto sul viso e servì loro da bere e gli snack. Troppo rischioso farsi riconoscere. Troppo.
Quella sera babbo tentennò anche al nono minuto. Imprevedibilmente. Questa volta lo sbilanciamento non era un coupe de theatre. Se ne accorse solo Matteo, nella penombra di un anfratto del tendone. Tremava tutto e con lui il liquido delle bevande. Una scatola di arachidi prese la via della terra. La pertica salvò il funambolo all'ultimo istante.
Gli spettatori furono quasi delusi. Il sangue in diretta è un aneddoto da raccontare anche ai nipotini. Altro che. Matteo prese il padre appena dopo l'esibizione nella roulotte, tutto sudato per il pericolo corso. La sua faccia era sconquassata da una tempesta di sollecitazioni nervose. Gli disse tutto d'un fiato «Perché continui a fare questo lavoro?». «Perché voglio guadagnare soldi inseguendo i miei sogni, non voglio fare soldi inseguendo i soldi». E i suoi sogni erano là in alto al confine con il cielo, dove è più facile contare le sette stelle. Matteo capì e non tornò più sull'argomento. Capì anche che il suo futuro era, anche per lui, su quella fune al confine del cielo, dove è più facile individuare i propri sogni. Dove è anche più semplice parlare con Dio o chi per esso. Da quel giorno il funambolo prese a guardare Matteo all'inizio della sua esibizione. Lo guardava un attimo e sorrideva. Quel gesto catalogato come scorta di ottimismo da fare durare per tutta la serata. Ma la vita è ancora più bizzarra di come un giallista pazzo la possa immaginare. Babbo morì qualche tempo dopo. Scendendo i gradini delle scale...

sabato 10 dicembre 2016

Don Carmelo, ultima fermata



Posso sbagliare tante cose, ma di questa ne sono sicuro.
Lo trovo seduto di fianco alla porta finestra che dà sul balcone. Lo sguardo fisso oltre le tendine bianche. Carmelo, Don Carmelo, è alle soglie del secolo. Una vita romanzata, ha fatto a piedi tutta l'Italia, da Bolzano a Messina, per andare a rincontrare quella che poi sarebbe diventata sua moglie. Ma il vero romanzo sono i suoi gesti quotidiani.
Il suo – il nostro - dialogo verte sul silenzio. Raramente i nostri sguardi si incontrano. Il suo, liquoroso e distante, cerca sempre un appiglio oltre la mia persona. Quando i nostri occhi si incontrano – per caso - , lui mi sorride. Il quel lampo ci sono tante cose, ma la più chiara è l'affetto: puro, surgivo, primigenio.
La sua figura è schiacciata tra il cuscino che ingentilisce la seduta della sedia e lo schienale perimetrato da una sagoma di acciaio, vagamente anni '60. La polla che pare fare da involucro alla sedia e a Don Carmelo è buona parte del suo mondo. La televisione è sempre accesa, ma è più che altro un rumore di sottofondo, la colonna sonora della sua giornata. Le mani sono sempre appoggiate sulle cosce, le spalle vagamente incurvate; come se fosse sempre in procinto di alzarsi per andare a correre in risposta di un campanello che non suona quasi mai. Parla poco, sta sempre in silenzio. Ma non è mai annoiante. Mai.
Chissà che silenzio c'è nella sua testa. Che tipo di silenzio. Se è un silenzio che ronza, che riempie le orecchie. O se è un nulla ovattato come quello che filtra da un tappo di cera: quello che passa può essere catalogato come silenzio? Certo, penso di sì.
Oppure se il suo silenzio è un silenzio liquido, uno di quei silenzi neri che ti si formano dentro la testa, in un punto imprecisato del cervello. Un vuoto che si allarga, muto, fino a coprire tutto. Fino ad assorbire toni e frequenze e vibrazioni e timbri e parole e suoni. Inghiotte tutto in un gorgo nero e denso.
O forse no. Forse è un silenzio ipnotico, come quello della goccia che cade nell'antro di una caverna e accorda su di sé tutti rumori del mondo che accade. Un rintocco pungente che non si ferma mai.
Mi perdo delle ore a cercare di capire il suo silenzio. Poi, puntualmente, ad un certo punto, Don Carmelo sposta il suo orizzonte da un vuoto luminoso della stanza ai miei occhi. Mette a fuoco: occhi spalancati, così chiari da sembrare grigi. Dentro i suoi occhi si muove qualcosa; qualcosa di talmente violento che sembra esplodere sotto il cristallo curvo della cornea. Un sentimento intenso e particolare, oggi desueto: è affetto.
Si alza anche se il campanello non suona. Di scatto.
Poi ha un lampo negli occhi. Improvviso. Spegne la Tv: il pulsante fa un suono secco - definitivo. Va verso la sua radio, l'accende. Giocherella con la manopola della sintonizzazione, va avanti e indietro, indietro e avanti. Sorride, sorpreso. Come se proprio in quel momento capisse il complesso meccanismo di un circuito elettrico, il miracolo delle cose che si concatenano e concepiscono risultati inaspettati - flussi di particelle che danno voce a quell'apparecchio sintonizzato sulle onde corte. Suoni lontani, musiche levantine, strani sussurri, sibili. Lui mi guarda e sorride. Senti, mi dice, senti. Non guarda la radio, ma vede. Vede gli zampognari spagnoli, tamburi africani, i lamenti di barcaioli sul Nilo. Vede guardiani di faro che sorseggiano tè al bergamotto guardando i cavalloni che si rincorrono, donne bellissime che ballano al ritmo di sette ottavi, un frate che cammina a capo chino nella navata centrale di Canterbury. Canti gregoriani, Dixieland anni Venti, mastodontici tenori orientali. Vede i beduini del Sahara, la Legione straniera e i nativi dello sterminato West. Inclina la testa, sorride e mi guarda. Senti, mi dice, senti. Mi vuole fare un regalo, mi vuole offrire qualcosa. Mi vuole portare per mano nel suo mondo. Io ci provo ma non ci riesco, non ci riesco ancora. E allora lui continua a far ruotare la manopola della sintonizzazione, avanti e indietro, indietro e avanti.
Ecco, ecco.
Ora sento, ora vedo.
La mattanza dei tonni in Sicilia, gente che passeggia per le boulevard e le avenue, Miles Davis in estasi sulle note di Spanish Key, prostitute che si affacciano dalle finestre, monaci che cantano i vespri, ghiaccio che tintinna nei bicchieri, dialoghi soffiati. Lui capisce, mi sorride, lo ringrazio. Dà un'ultima sventagliata, quasi rabbiosa. Lingue strane, accenti diversi. La voce di un muezzin nell'ora della preghiera, il rintocco potente del Big Ben, BBC, le notizie, il tono gutturale e aspro di un radiocronista tedesco. Con un colpo secco porta la lancetta della sintonizzazione a fine corsa. Ora c'è solo un brusio lontano. La risacca del mare, il fruscio del vento che sbatte contro i rami di un albero, il vagito di un bambino, rumore di piedi scalzi che calpestano l'erba. Suoni feltrati, struscii, strascischii. Improvvisamente abbassa il pulsante fino a farlo combaciare con la scritta “off”. Quel mondo lontano non c'è più. Il silenzio è rotto dal rumore di uno sciacquone.
Mi appoggia il palmo della mano sulla spalla, mi scarruffa i capelli.
- Vai che è tardi – dice in un fado dolcissimo – vai a casa. Onorami ancora della tua visita, in futuro”.

Non mancherò. Don Carmelo, non mancherò...

Hello world

Ciao a tutti!