sabato 28 gennaio 2017

Vertice al Quirinale, clamorose novità




Sergio Mattarella si pulisce le scarpe sullo zerbino, dà un ultimo sguardo ai platani sul Lungotevere e entra in casa. “Questa – pensa – è la casa del Presidente della Repubblica”.
Prende il tè fumante, fissa il poster di Gad Lerner e si accarezza, meditabondo, il mento.
Come ogni giorno, arriva il Presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni.
Anch’egli prende il té fumante, fissa il poster di Fabio Fazio e si accarezza, meditabondo, il mento.

I due amici si osservano con rispettosa famigliarità. Poi Gentiloni si siede di fianco a Mattarella e dice:
- Voi, Sergio, vivete in una casa essenziale, ma dignitosa -.
- È vero, Paolo, questa è la tipica casa di noi Presidenti: essenziale, ma dignitosa. So benissimo che anche voi, Paolo, vivete in una casa essenziale, ma dignitosa.
- Del resto, noi siamo italiani -.
- Già, Paolo, siamo italiani e viviamo in Italia in modo essenziale, ma dignitoso -.

I due amici bevono insieme in té fumante e guardano una replica dei programmi dell’accesso in bianco e nero.
Fuori cade una leggera pioggia. A Ponente, il sole deposita una fredda striscia di fuoco. Si odono, in lontananza, le note melanconiche di una canzone di Gabriella Ferri.
Trascorsa qualche ora, Paolo Gentiloni, rivolge nuovamente la parola all’amico.
- E la Boldrini?
- È di là che cuoce la zuppa di fagioli e ascolta una cassetta di Pupo.
- Perché, Sergio, ascoltiamo sempre musiche così meste?
- Perché Dio così vuole, Paolo.
- Sempre sia lodato.

Passa il tempo, l’immobile e sacro tempo in casa del Presidente della Repubblica. Mangiano la zuppa di fagioli preparata dalla devota Boldrini. Paolo passa un paio di ore a disegnare curve pigre con il cucchiaio nella zuppa. In lontananza si avvertono urla di manifestanti e spari delle forze dell’ordine.
- Che cosa sta succedendo là fuori?
- Sia fatta la Sua volontà.
- Ora e sempre.

Verso mezzanotte Paolo Gentiloni doveva rincasare.
- Io devo rincasare, Sergio. Che faremo domani?
- Vengo io da te, Paolo.
- È mercoledì: passato di cavolo nero. Giusto?
- No. Domani vorrei una vellutata di piselli.
- Vellutata di piselli?
- Vellutata di piselli.
- Ma che novità è mai questa?
- Ogni tanto dobbiamo trasgredire, Sergio. Non senti il subbuglio della nostra gente? Vogliono il cambiamento!
- Giusto! E noi gli diamo il cambiamento.
- ...
- Ma non sarà mica un po' troppo?
- No, dobbiamo portare avanti la nostra linea, che diamine!
- Bene -.
- Bene -.
- Allora, domani, vellutata di piselli -.
- Vellutata di piselli -.
-...
-...
- E chi lo dice ora alla Boldrini? -.
- Ci penseremo domani. Dobbiamo prima prepararla al cambiamento -.
- Giusto -.
- Giusto -.

Paolo meditò qualche istante sulle parole dell’amico Sergio. Era già sulla soglia di casa, quando, stringendogli la mano, gli rivolse le parole di commiato, le stesse di ogni sera.
- Perché Sergio, dobbiamo romperci i coglioni tutti i giorni in questo modo?
- Perché Dio ha voluto che così fosse.
- Dio sia benedetto.

Paolo si avvia verso casa guidato dalla nenia di una canzone di Franco Battiato.
Così è finita la giornata dei due Presidenti...



giovedì 26 gennaio 2017

Rigopiano, i colori di una tragedia



Bianco è colore della morte, per una volta.
Azzurro è quello dei tanti soccorritori che si sono alternati in quella sfortunata landa per cercare (e per undici volte, a riuscire) di salvare vite umane.
Nero, ancora una volta, è quello dei tanti giornalisti (o presunti tali) che bivaccano nei pressi degli ospedali o sul luogo della tragedia o davanti alla casa delle vittime o addirittura nella chiesa dove si officiano le esequie funebri: un colore per cercare di descrivere come il dolore sia stato insultato con l’offesa più inutile. Quella di diventare merce. Merce rara e ricercata.
Guardando i vari contenitori pomeridiani e serali che si susseguono in questi giorni, verrebbe da pensare che il dolore sia quasi provocato, anelato, cercato.

Nell’oramai annoso dibattito sullo spettacolo del dolore si parla – e non per caso – molto di etica e di morale e pochissimo di economia.
Perché il dolore è proprio questo: una merce che fa vedere i telegiornali e vendere i giornali.

In fondo, questa banalità – tutto è merce – è la più inconfessabile delle leggi che governano le nostre povere vite. Più ineludibile della legge marziale, più mutilante del bisturi.

Ammettere che il dolore si compra e si vende, come qualsiasi altro istante e qualsiasi altra cosa, vorrebbe dire ammettere che viviamo come disperati in una società disperata.

E, forse, è proprio così...