giovedì 22 agosto 2019

La voce di Dio









È un’alba strana. Quella di oggi. Ogni alba è diversa, invero. Diverse combinazioni di colori, diversi profumi, diverse musiche. A volte è un’alba silenziosa, a volte il silenzio del mondo inciampa nella grida dei gabbiani. A volte è sporcata da un vento feroce e intermittente, una frusta fallata, una balbuzie di tramontana.
Quest’oggi è un’alba silenziosa e lattiginosa.
Quest’oggi è un’anticipazione di Dio.
Perché io oramai sono fatto così, un vecchio anarchico profondamente religioso e senza una chiesa di riferimento che rappresenti l’una e l’altra parte di me.
Lo accetto e mi sono costruito attorno un recinto insonorizzato. Perché tutto, lì dentro, può entrare tranne il rumore e l’ostentazione. Perché è il silenzio la musica del mio rapporto con Dio, perché l’assenza di rumori è la voce di Dio, del mio Dio.
Ed è per questo che quel rosario brandito come un’arma nei comizi, nelle aule parlamentari (laiche, fino a prova contraria), nelle spiagge urta profondamente il mio modo di essere. Come del resto trovo intollerabili i proclami politici di Bergoglio e gli attici dei cardinali.

Il rapporto con Dio è un mero affare di amore, di condivisione, di comprensione. E di silenzio.
Il fiore della Madonna, tanto inneggiata negli stabilimenti balneari, è la rosa.
Avete mai sentito una rosa parlare?...

lunedì 24 dicembre 2018

Festivi compresi






È la vigilia di Natale, presto. Tanto presto che il sole non ha ancora valicato il promontorio magico di Sestri Levante. È così presto che riesco ancora a rabbrividire per l’ultimo refolo notturno che scivola, timido, dalla collina di Santa Giulia. È probabile che oggi verrà giù ancora un po’ di macaja, ma ora l’aria è fresca e dolce.
Mi bevo il mio the e accendo la prima sigaretta della giornata. Non sono ancora le sette e fuori c’è silenzio assoluto. Il primo rumore che sento è l’accendersi di una piccola radio a transistor che una mano callosa ha poggiato sul davanzale della casa che ho di fronte. Si spande, come zucchero filato su una torta di mele calda, l’armonia di una canzone.
...sento fischiare sopra i tetti
un aeroplano che ne ne va…
Adriano Celentano, anni 60 o 70, boh, non mi ricordo. So solo, che ascoltandolo, la so a memoria. C’è qualcun altro che la sa a memoria; è la voce della stessa mano che ora sta lisciando una parete di una stanza che sta ristrutturando. Sta usando il frattasso: sta fratassando. Intonaco e musica: due armonie a me care.
Ora c’è un lieve intermezzo tra frattasso e musica. È lo sfrigolamento di una carta oliata che contiene un panino alla mortadella. Lo riconoscerei tra mille.
Inconfondibile, come la voce di Celentano.
Ora il mio amico muratore sta facendo colazione, mentre io scrivo due cose sul retro di un pacco di biscotti. Pensieri che stanno formando questo pensiero.
Chi, fuori da questo mattino di un giorno di festa, è al corrente di questo frattasso, di un panino con la mortadella, della sua carta oliata e della voce di Celentano?
Questa mattina, il quartiere Ripamare è altrove da qualsiasi ragionevole contemporaneità, è una specie di acquario, un micromondo isolato dall’universo da una lastra di vetro da dove nulla può trapelare. Una barchetta che, placidamente, caracolla sul mare che abbiamo davanti agli occhi. Ma, nella barca assieme a me, c’è un ragazzo che ha sì e no la metà dei miei anni e non dovrebbe conoscere questa canzone, né l’esistenza dello frattassamento, alla viglia di un giorno di festa. Accanto a lui, c’è un collega che ieri cantava a squarciagola Vola Colomba Bianca Vola, che ora si sta facendo una grassa risata.
Chissà perché.
Chissà per cosa.
Chissà quanti di noi sanno dell’esistenza di negozi che vendono radio a transistor, o frattasse o panini con la mortadella poggiati su carta oleata.
E ci sono anche ragazze che amano giovani muratori canterini: lo so perché odo squilli sincopati di cellulari e risatine e allegri prendingiro.
Ci sono sentimenti, oggetti, musiche che bastano a fare un universo clandestino, anoressico dalla contemporaneità.
Dio solo sa se non vorrei mettermi di fianco a loro per cantare quella colomba bianca che vola. Ma non lo faccio; non voglio ficcare la mano in quell’acquario che è perfetto così come è, ora che il sole troneggia sulla baia delle Favole. Voglio che questo piccolo miracolo di Ripamare se ne resti pace. Un piccolo segreto, così insignificante per chi mi guarda da lontano. Perché il segreto è viaggiare altrove, essere invisibile in quest’epoca infame assieme a un frattasso, una carta oleata e la voce di Adriano. E restare vivi, amare e essere amati e tirare avanti serenamente fino al prossimo ponteggio, al prossimo telaio di una finestra su cui poggiare una radiolina a transistor, alla prossima fragranza di un panino alla mortadella. Alla prossima stupida, vecchia canzonetta.
Fino alla prossima vigilia di Natale, perché i muratori a cottimo lavorano tutti i santi giorni che Dio manda sulla terra.
Festivi compresi...

giovedì 31 maggio 2018

Una vecchia canzone di lotta







È uscita quasi per caso dal gracchiare confuso di una stazione radio malsintonizzata. È uscita tra omelia monotona di Radio Maria e le notizie del traffico sulla rete autostradale. Saranno stati dieci anni che non la sentivo. Quasi un afflato inudibile, ma per me è stato come uno squillo di tromba. Era “Pablo” di Francesco De Gregori. Roba da pugni nello stomaco.

Per quanto mi riguarda l’opera di quest’uomo è solo quella canzone. Null’altro. Anche se ho passato la mia infanzia a canticchiare le sue canzoni, Pablo è stata la mia colonna sonora.
Lo spago sulla valigia.
Il fumo diviso lontano da casa.
La moglie ingrassata come da foto.

L’ascoltavo solo una volta al giorno, per centellinare le emozioni. Quella canzone ha operato in me una rivoluzione libertaria.
È l’Anarchia ciò che mi resta di Pablo. Che non è una bandiera, non è un comizio, non una presunzione e nemmeno un programma politico; di certo non un graffito su un muro, ma nell’anima. Ecco, una probabilità di redenzione. Che riguarda gli uomini e le cose degli uomini, che riconosce futuro nel mondo perché è capace di immaginarlo. Hanno ammazzato Pablo, Pablo è vivo.

Ho sentito l’ombra di tutto questo inciampare nella mia vita a quattordici anni. Mi ero messo per strada, così come fanno i ragazzi che vanno in cerca di niente. Sono inciampato nel solito bar, dove all’interno si vendevano vini bianchi e spume al ginger. Fuori dalla porta c’era una reclame del Rosso Antico, tre sedie e un juke box.

C’erano facce da sbandati (tra cui la mia) che se ne stavano ad ascoltare una canzone. La canzone diceva: mio padre seppellito un anno fa, nessuno più coltivare la vite...
Ascoltavo quella canzone come se fosse la mia voce, perché la sua voce aveva rotto il silenzio che io covavo dentro. Mi sono fermato accanto a quel juke box e l’ho imparata a memoria, senza intenzione. Ora non saprei dire cosa sentivo di quella canzone e come potesse avermi scelto per forzare il mio silenzio. So che davanti a quel bar ho cambiato età, e quella nuova non è ancora conclusa.

Pablo è stata la voce del mio silenzio. Anche se scrivo per campare, rimango pur sempre un uomo che non ha abbastanza voce. Non perché possa in coscienza pensare di bastare anche al mio personale bisogno di libero pensiero.

E tutte le volte che sento quel canto anarchico, mi si accappona la pelle.
Quel canto di libertà che in molti si sentono in dovere di ascoltare a pugno chiuso...


lunedì 28 maggio 2018

Scappa, Giuseppe Conte, scappa...





Probabilmente non ha molto senso dirlo oggi, ma mi sento vicino a Giuseppe Conte. Provo la solidarietà che ho avvertito sabato sera nei confronti del portiere del Liverpool.
Gli eroi sfiorati come Conte hanno un nemico comune a tutti gli uomini – il proprio ego, nello specifico, manifestato nel taroccamento del curriculum - e uno speciale e assai peggiore, ovvero il famoso senso di responsabilità. Al peso dell’amor proprio si somma il fardello delle pubbliche attese.

Così, quando ho visto che, finalmente, ha lasciato il Quirinale con i suoi faldoni in mano ho pensato istintivamente che era evaso. Me lo sono visto appena uscito dalle severe stanze istituzionali come in certi film americani con il vestito a righe e la lima ancora in mano, che corre a perdifiato verso il confine con il Messico. Poi, la seconda immagine, metafisica, è lui che dà un’ultima occhiata al Paese, una timida sbirciatina con un ghigno beffardo al triste spettacolo di Di Maio e Salvini e Martina e Berlusconi e Renzi.
E scorrono i titoli di coda.

Il primo che mi chiede adesso (e qualcuno l’ha già fatto) un giudizio politico e etico sullo spettacolo del quasi premier Conte, lo mando affanculo senza passare dal via.

Vorrei solo un cammeo, una particina minore nel film di “Giuseppe l’evaso”.
Solo un piano sequenza, io e lui, in un baretto dalle parti di Tijuana. Gli offrirei un doppio rum.
Alla salute, companeros, gli direi.
Alla tua salute...

venerdì 25 maggio 2018

Brunetta a #cartabianca







Renato Brunetta è in forma strepitosa, lo abbiamo visto non più di un paio di giorni fa Chez Bianca Berlinguer. Appare perfino ringiovanito. Le disgrazie lo rafforzano, le sconfitte gli donano vigore, l'ostilità popolare lo conforta.

La sua figura, questo va detto, è stata sottovalutata. Forse per via di quella inefficace prestanza fisica, forse per quel suo modo stridente di sorridere che lo fa assomigliare più ad una iena che ad un essere umano, ma sempre lo abbiamo catalogato come il fido scudiero di Berlusconi.

Non è così: oramai risulta chiaro che Renato Brunetta è sempre stato il capo. Lui era il Don Chisciotte, Berlusconi il Sancho Panza (la Santanchè, Dulcinea?). Sono stato poco attento, bastava dare un'occhiata alle caratteristiche teatrali: era Brunetta che aveva quella vena di follia che lo faceva sempre parlare a vanvera, negando anche l'evidenza. Il Cavaliere è grassottello e fanfarone: la tipica spalla teatrale condannata ad una fine grama.

Guardiamo come è andata a finire: “Sancho Panza” B. è stato disarcionato, mentre Renato “Don Chisciotte” Brunetta è ancora in sella, vaniloquente e fiero, e affronta le telecamere con sublime serenità, come chi sa che non è la pedestre realtà il terreno su cui misurarsi, ma i sogni e i mulini a vento.

E infatti, mentre Berlusconi impreca, bofonchia e bestemmia il Fato, l'altro continua solo e composto la sua delirante cavalcata.

Non c'è che dire: la tragedia gli dona, anche fisicamente. Fateci caso, sembra anche più alto...




martedì 22 maggio 2018

Il grande vuoto








Destra, sinistra e Cinque Stelle hanno ragione: il giornalismo politico, almeno in Italia, è pettegolo, approssimativo, spesso fazioso, quasi sempre inutile.

D'altro canto nemmeno Toqueville riuscirebbe a scrivere articoli epocali ogni giorno, soprattutto rubando mezze frasi nei ristoranti frequentati da politici, nei locali che ospitano parlamentari, rubacchiando due righe nei tabulati telefonici. Di più: nella maggior parte delle occasioni, i giornalisti se ne stanno comodamente seduti al desk, facendo il refresh alle ultime notizie delle agenzie di stampa. Segue il classico pastone con le notizie che si ritiene più succulente.


Ma il problema – se questo stato di cose si può catalogare nella categoria “problemi” - non interessa solo la politica. Spesso anche i calciatori si lamentano per un caso “montato ad arte”, così come attori, cantanti e tronisti denunciano la vita impossibile che sono costretti a vivere a causa di paparazzi e giornalisti un po' troppo appiccicosi. D'altronde bisogna anche ammettere che senza i giornalisti e le prime pagine, difficilmente le categorie sopraelencate (politici, calciatori, tronisti) riuscirebbe a condurre la vita dorata che i cronisti raccontano ogni giorno. Gli uni ostaggi degli altri: un'arma a doppio taglio a causa della quale non si capisce più chi è ostaggio di chi.

Un rimedio c'è, ma è improponibile: basterebbe ammettere che non sempre, almeno non ogni giorno, si ha qualcosa a dichiarare e conseguentemente costringere i cronisti a recarsi dai propri direttori per proporre un triste “nulla di notiziabile”.

Ci sono giorni che la vera notizia è il silenzio: la pagina vuota, terrore di tutti gli operatori dell'informazione. Una sorta di “giorno bianco”, utile per ricaricare le pile e per fare stagionare pensieri e parole. Ma è utopia, non-senso alla stato puro, soprattutto nell'era della quantità, dove l'assenza è vista come una colpa. Così, quotidianamente, giornalisti, politici, nani e ballerine, producono parole per puro horror vacui.

Chilometri di inchiostro per paura che il vuoto ci inghiotta. Proprio quel vuoto che potrebbe salvarci...

domenica 20 maggio 2018

Il futuro è adesso








Forse è meglio cambiare la nostra ottica. Sarebbe ora di trasformare la famosa angoscia del futuro in una sana – e più saggia – paura del presente. I fantasmi di cui parliamo oggi, sono sotto i nostri occhi.

Sui treni nessuno si può sentire sicuro, men che meno i controllori, picchiati crudelmente con feroce puntualità da risme di delinquentelli di tutte le età, razze e religioni.
A scuola pseudo-gang e simil-bulli si divertono a spaccare gli arredamenti (e le facce dei professori) per il solo gusto di accumulare contatti su Internet. In passato qualche pugno e calcio è toccato ad un ragazzo diversamente abile (e non immaginate nemmeno quanti click si è meritato).
Preti che abbordano ragazzini e spacciano cocaina, fregandosene bellamente di inoculargli l’Aids.

A Brescia padre e figlio spezzano il collo ad una ragazza di 25 anni, rea di aver detto no ad un matrimonio combinato.
A Roma, disabili e baristi pestati perché rei di lesa maestà nei confronti delle famiglie che comandano il quartiere.
Delle donne uccise da un amore malato, oramai abbiamo perso i conto.

A questo aggiungiamo il non trascurabile particolare del continuo - noioso - vociare tra istituzioni e giudici, tra giornalisti e politica, tra forze dell’ordine e avvocati, tra Cassano e il suo procuratore.

La felice Italia, di cui si è abbondantemente scritto in passato, ha felicemente partorito i suoi agghiaccianti figli.

Che cosa possiamo fare, adesso?
Non lo so, e nessuno può dirlo con precisione, nemmeno Morelli o Crepet.
Ma c’è almeno una cosa che possiamo fare da subito: smetterla di scrutare l’orizzonte con aria pensosa e preoccupata.

Guardare fuori dai portoni, davanti alle nostre auto, all’interno delle nostre scuole, tra i palazzi delegati ad ospitare le più alte istituzioni.

Il futuro, amici miei, è già arrivato. Ha la testa vuota e le mani pesanti.
E ha fretta di farsi conoscere...

lunedì 9 aprile 2018

La tragedia dell'Arandora Star

Tratta dal romanzo "L'enfasi eccessiva" (Rupe mutevole)





Al largo di Liverpool, 2 luglio 1940





- Bella la tua idea, proprio bella. Ma sì, dai, andiamo anche noi alla casa del Fascio...
- Ma che ce ne fregava a noi del fascismo. Non ti lamentavi però quando siamo andati a sentire Beniamino Gigli o quando organizzavano la tombola...
- Sì, sì. Intanto siamo qui su ‘sta nave, trattati come delinquenti dopo tutto il culo che ci siamo fatti a Londra. Tutti e due belli impacchettati, due fratelli con la mamma in bottega a sgobbare da sola. Siamo in un bel guaio, non c’è che dire.
Ernani e Vittorio Carpanini erano stati prelevati due giorni prima dai bobbies: uno nel caffè di famiglia a Soho, l’altro per strada, dove esercitava la nobile arte del musicante. Li chiamavano organ grinders e in famiglia erano considerati degli artisti di strada. Ma non ci vuole nessuna maestria a far andare l’organetto, basta girare la manovella con un movimento costante.
La musica viene fuori da sola, sembra un’orchestra. Ernani guadagnava anche una sterlina al giorno nel quartiere di Clerckewell, come un professionista degli spartiti. Bastava avere un braccio robusto e girare la manovella, tutto qui. Del resto, chi ce li aveva i soldi per andare a studiare la musica. A casa loro manco c’erano i soldi per mangiare. Quando ancora erano a Bardi, i Carpanini erano taglialegna. La notizia dell'Inghilterra come Terra Promessa arrivò via mare, da Genova. Il legname dell'Appennino serviva come travatura di sostegno nelle miniere di carbone in Valfontanabuona. Il carbone poi tornava a Bardi e con esso anche il racconto di quella terra che offriva grandi opportunità a chi avesse voglia di lavorare. E la famiglia Carpanini di voglia di lavorare ne aveva tanta. Partirono agli inizi del Novecento, con le solite valigie chiuse con lo spago.
In Inghilterra li guardavano da sempre un po’ di sbieco per via di quella parlata che avevano; smozzicavano il cockney e quando si esprimevano in italiano, lo facevano con quell’accento asperrimo dell’appennino emiliano, con quelle esse sdrucciole, le zeta che sparivano – eccessionale, magassino, dicevano - con quelle ci che assomigliavano a cappa, con quel tono che verso la fine della frase si chiudeva a riccio – parole smozzicate e mai terminate, alla fine.
Loro, Vittorio e Ernani, manco lo sapevano che il Duce aveva dichiarato guerra all’Inghilterra. Loro pensavano a sbarcare il lunario e una volta al mese si ritrovavano tutti assieme alla Casa del Fascio a Charing Cross, a nord di Trafalgar Square. Sino a quel maledetto giorno, quando sentirono bussare alla porta e apparvero davanti ai loro occhi quattro poliziotti di Sua Maestà la Regina. Presi e imbarcati su una nave nel porto di Liverpool, destinazione sconosciuta.
A vederla da lontano l’Arandora Star sembrava una nave da crociera, una di quelle che si vedeva solo – che loro vedevano solo - nelle réclame dei giornali. Quelle che andavano nelle Americhe – un tempo si diceva così, nelle Americhe.
Tutta bella luccicante, che sfidava le onde del Mare del Nord - baldanzosa. L’unico particolare che andava a disturbare l’occhio dell’avvistatore era quello strato di filo spinato che perimetrava il ponte. Se poi uno aguzzava un po' l'occhio, poteva scorgere a poppa e a prua due cannoni per attacchi via mare e una vasta selezione di artiglieria antiaerea.
Lì, in mezzo all’assito del ponte più alto, c’erano prigionieri tedeschi e italiani, tutti quanti prelevati dai bobbies su ordine di Winston Churchill in persona che vedeva in quei poveri immigrati la quinta colonna del fascismo italiano e del nazismo tedesco.
- Chi sa che fine ha fatto papà? – Vittorio si sfrega le mani: alle sei di mattina, in pieno mare, l’aria è frizzante. Anche d’estate.
- Sarà prigioniero in qualche campo, magari in quello di Bury o a Brompton Road. Forse sta partendo anche lui per l’Australia. O per le Americhe. Come noi, del resto...
- Ma lui, mica ci veniva alla Casa del Fascio, mi sa che lui tirava dall’altra parte.
- Ma l’hai capito o no? - guardò dritto negli occhi il fratello - Gli inglesi mica guardano se sei fascista o socialista, se sei toscano o emiliano. Loro guardano solo il passaporto e lì c’è scritto che siamo italiani. E quindi siamo pericolosi per la società inglese. Altro che balle. L'hai capito o no?
Un gruppo di tedeschi faceva la ronda; erano marinai, scrutavano il mare e davano pacche sulle spalle agli italiani. Sapevano come muoversi sulle navi, non come loro che il mare lo avevano visto solo in cartolina – al massimo avevano visto il cheto e innocuo fiume Taro vicino a Fornovo, quando se ne andavano in trasferta a Parma, due volte l’anno, per le fiere del bestiame.
- Hai sentito stanotte il dottor Bergamo? Ha detto che siamo seduti su una polveriera. Dice che i tedeschi ci possono sparare addosso da un momento all'altro, con tutti quei sommergibili che ci sono in giro. Non abbiamo nemmeno il simbolo della Croce Rossa ... – Ernani si accorse che proprio in quel momento stava avvicinandosi a loro il medico in questione.
Il dottor Alvise Bergamo era molto conosciuto fra gli italiani a Londra. Aveva il suo ambulatorio in Kensington Square; ma non visitava solo gli italiani, anzi, la sua clientela era formata soprattutto da inglesi – quelli abbienti, perlopiù. E tra i suoi pazienti c’era pure il capitano della nave, Edgar Moulton. Per questo lo stesso comandante della Arandora Star – stazza 16mila tonnellate, sei piani e una chiesetta interna – gli propose di andare a passare le notti negli alloggi degli ufficiali. Ma lui rispose di no, disse che “voleva stare con i suoi ragazzi”, quelli ingabbiati e trattati come delinquenti solo perché erano italiani – come lui, del resto. Non aveva mai sfruttato il suo status. Sapeva benissimo che le parti si potevano invertire da un giorno all’altro. Non un uomo di mondo, ma un uomo del mondo. Da sempre.
- Dottore, buongiorno. Anche lei qui sul ponte. Mamma mia, che freddo, eh – Ernani continua a sfregarsi le mani, che facevano il rumore della carta vetrata (trrrrrr, trrrrrr, trrrrrr). Erano mani proletarie, irregolari e spigolose, abituate a tirare su e giù serrande nel caffè di famiglia.
Al Carpanini’s si serviva il miglior gelato di Londra. Si alzavano alle cinque di mattina per ricevere l’uomo che vendeva il ghiaccio. Poi si faceva il gelato sino alle nove. Mezzora di stacco poi via a bollire il latte, per il gelato del giorno dopo. Ernani partiva alle undici con il pony e andava nelle vie del centro a vendere Italian Ice Cream fino al tramonto. Nel negozio ci lavoravano papà Beppe e mamma Risorta con due zie e tre ragazze del posto, anche loro emigranti dalla Valtaro. Si chiudeva alle undici di sera e le pulizie le faceva la famiglia al completo (compreso Vittorio che aveva da poco depositato nel retro l’organetto).
- Salve ragazzi. Come va? – Il dottor Bergamo manteneva sempre un aspetto dignitoso a dispetto delle condizioni di prigionia (immancabile il Borsalino, poi il gilet e un civettuolo foulard bianco). Aveva un viso roseo appena compromesso da rughe discrete; la bocca era ingentilita da un sorriso di circostanza anche nei confronti dei soldati che lo seguivano con il fucile puntato. Molti di quelli erano stati anche suoi pazienti. Ma la guerra è la guerra, gli dissero. Anche per un luminare della medicina. Non si salva nessuno. Quel giorno, il sedici giugno, presero tutti: banchieri, sacerdoti, negozianti, manager, gelatai. Il Duce gettò il guanto di sfida sul volto della perfida Albione. E allora il primo Ministro inglese si scordò di quando accolse Mussolini nello sfarzo dei salotti inglesi e anche di quando, nel ’27 disse che ammirava il Duce - “ultimo baluardo contro il cancro del comunismo russo”, dichiarò.
Quando presero la famiglia Carpanini al completo, il poliziotto aveva le lacrime agli occhi. Tanto che Beppe andò in cantina e prese il miglior vino per berlo assieme ai poliziotti. “È una questione di qualche giorno, poi tutto si risolverà, non si preoccupi, signora Risorta”, dissero i bobbies prima di ammanettare il marito e i due figli – Ernani di ventidue anni e Vittorio di appena sedici.
- Dottore, scusi, ma perché ci stanno portando via? Che abbiamo fatto di male?
- Di male nulla, se non pensiamo che costituisca un reato l’essere nati in Italia. È il Duce che stavolta l’ha combinata grossa.
- E che ha fatto Mussolini?
- Ha dichiarato guerra all’Inghilterra. Il 16 giugno in Piazza Venezia ha fatto il proclama.
- Non eravamo amici degli inglesi?
- Certo. Avete ragione. Anzi, i fascisti erano visti come un baluardo all’avanzata del comunismo in Europa. Il problema dell’Inghilterra, allora, era la Russia. Noi italiani sino a quindici giorni fa eravamo trattati bene, su questo non si può questionare – il dottor Bergamo scrutava la fascia orientale dell’orizzonte per cercare di scorgere l’alba – E i simpatizzanti del Fascio erano i benvenuti. Semmai gli italiani socialisti erano osteggiati. E il Duce lo sapeva, era contento di avere così tanti italiani in terra inglese, aveva pure cambiato la dizione con la quale eravamo chiamati: non più emigranti, ma lavoratori italiani all’estero...
- E poi?
- Poi Hitler ha fatto pressione e Mussolini non ha avuto la forza di dire di no alle sue pretese, alla sua voglia di espansionismo. Hitler è un pazzo. Sta invadendo la Francia e vuole fare lo stesso con l’Inghilterra, così ha fatto in modo che anche gli italiani si mettessero in questo vicolo cieco e ha costretto il Duce a dichiarare guerra agli inglesi.
- E dove ci portano ora? - Ernani smarrì in un labirinto di pensieri resi più confusi dalla mancanza di parole adatte ad esprimerli
- All’Isola di Man o in Australia. Chi lo può sapere. Siamo nelle mani di Dio - lontano, a Ponente, una massa di nuvole avanzava pigramente -. Ecco, lui potrebbe saperlo... – con un cenno del capo indicò il sacerdote che stava salendo dalla coperta, mani giunte e un rosario da snocciolare tra le dita ossute.
Don Bartolomeo officiava – in modo quasi carbonaro – dalle parti di Myfair. Si conoscevano: il medico era attirato dalle lunghe dita del prevosto: affusolate, quasi femminili. Le aveva già notate in passato, quando salmodiava in St. Peter’s, la chiesa degli italiani: gli ricordavano le mani di un pianista, capaci di estendersi oltre un’ottava.
- Dottore, alle otto ci vediamo sul secondo ponte per officiare la Santa Messa. Cerchiamo di non perdere le buone abitudini, anche se le condizioni non sono ottimali – il prete guardò i soldati e le loro armi con uno sguardo pieno di commiserazione. Poi i suoi occhi guizzarono su Vittorio e Ernani -. Mi raccomando, venite anche voi, ragazzi.
- Non mancherò di venire, padre. E porterò anche questi due giovani italiani alla messa – il medico mise un paterno braccio sulle spalle dei due ragazzi.
- Non li ho mai visti a St. Peter’s – lo sguardo del prete faceva trasparire un palese ammonimento – Bene, approfitteremo della permanenza forzata su questa nave per fare la conoscenza reciproca.
- Può darsi che da questa circostanza negativa possa saltare fuori qualcosa di buono -. Avrebbe potuto dire che non tutti i mali vengono per nuocere, ma il dottor Bergamo odiava le frasi fatte.
- Anche voi, a dire il vero, dottore, non è che siate assiduo frequentatore dell’ambiente ecclesiastico... – il prete spostò la mira
- Eh, padre, il lavoro... – Bergamo, in verità, andava a messa solo per puntiglio conformista, ma aveva preso in simpatia quel prete gracile e calvo, che aveva un approccio con le varie liturgie cristiane tutt’altro che lefebvriano.
- Va beh, dottore. Tutte le scuse sono buone. Ci vediamo di sotto, allora. Oggi abbiamo anche il privilegio di un accompagnamento musicale di tutto rispetto – con un gesto del mento indicò il Maestro Alcide Faraboli, apprezzato violinista che ha insegnato musica a mezza Londra, il quale stava raggiungendo il centro del ponte.
- Maestro, anche lei qui. Che onore... – il Dottor Bergamo invitò Faraboli nel gruppetto.
- Dura lex sed lex, caro dottore. Per fortuna ho fatto in tempo a prendere gli attrezzi del mestiere – così dicendo alzò un contenitore in pelle rigido, probabilmente contenente il violino. L'aspetto del musicista non lasciava trasparire nulla della condizione di prigioniero – forse solo l'ombra azzurrognola di una barba ancora non fatta. Alto, allampanato; rimaneva immobile come uno che era in posa per fare una fotografia, sorrideva di circostanza e poi riprendeva un cipiglio serio. Ai più questo sembrava un atteggiamento buffo, una continua gag per intrattenere il pubblico di un immaginario piano bar. Per altri, invece, quel tipo era solamente matto – ma la cosa non era poi così semplice. Andava continuamente in giro per l'Arandora Star a chiedere se qualcuno avesse visto con i propri occhi l'Australia – in ogni nave che si rispetti, pensava, ce ne doveva essere almeno uno.
- Dottore, è la prima volta che lei va in Australia?
- Beh, sì.
- Ah, peccato
Dopo quella domanda e la seguente risposta il discorso cadeva sulla guerra e sul Duce e su Churchill. Ma a queste cose lui non prestava troppa attenzione. A lui solo una cosa fregava veramente: suonare il violino.
- Stasera penso di organizzare un piccolo intrattenimento musicale assieme ad un collega tedesco che tenta di strimpellare il piano – disse l'ultima parte della frase con un moto di ribrezzo – vedremo che cosa ci salta fuori...
- E dove avete trovato il pianoforte? - chiese Don Bartolomeo con curiosità.
Il maestro ascoltò attentamente quello che il prevosto gli stava chiedendo. Si concentrò intensamente; come se da un madrigale lontano dovesse individuare le voci stonate. Infine parlò.
- Non scordiamoci che l’Arandora Star è nata come nave da crociera. Nella sala principale abbiamo riesumato un rudere di pianoforte a coda e ... - stette immobile e sorrise, poi, serio, se ne andò.
- Poveri noi. Che Dio ci assista. Allora a stasera. Ad maiora... - il prevosto lasciò la compagnia.
Oramai il sole si era alzato con prepotenza da Oriente. Quasi tutti i 1190 prigionieri erano svegli; c'era chi passeggiava sui ponti, chi si apprestava a scrivere lettere ai familiari, chi scrutava l'orizzonte dagli oblò sottostanti in cerca di impossibili risposte. I militari guardavano tutti i prigionieri con attenzione esagerata. Mancava poco alle sette, una manciata di minuti.
A duemila e cinquecento metri di distanza un sottomarino tedesco – U-Boot 47, 6.500 tonnellate di stazza - era in procinto di caricare un siluro, destinato alla Arandora Star. Il “fuoco” fu dato alle 6 e 58 minuti. Dopo novantasette secondi il boato straziante rivelò a prigionieri e equipaggio che la nave era stata colpita. L'Arandora Star affondò in quarantadue minuti. Pochi si salvarono. Le quattordici scialuppe furono prese d'assalto. La nave era stata progettata per mettere in salvo 400 persone, ma gli uomini erano quattro volte di più.
Ernani Carpanini non capì subito la gravità della situazione; nemmeno quando gli gridarono che la nave era stata colpita da un siluro. Forse perché non sapeva bene che cosa potesse essere un siluro – e quanto male potesse fare un pezzo di acciaio scagliato contro un colosso come l’Arandora Star. Vedeva solo la nave sotto di lui imbarcare acqua e affondare sempre di più. Vide la gente piangere e spingersi per entrare nelle barche che chiamavano scialuppe. Il mare intorno alla nave formicolava di persone che si erano gettate in acqua; alcuni parevano anche divertirsi, pensò in quel momento il giovane Carpanini. Lo incuriosirono anche quelle persone che abbracciavano pezzi di legno spuntati da chissà dove. Gli sfuggì anche un timido sorriso. Fino a quel momento Ernani non aveva paura, pensava che fosse stupido aver paura di qualche cosa che non si conosce; glielo diceva sempre suo padre, quando lui da piccolo non voleva entrare in una stanza buia “e cosa vuoi che ci sia dentro al buio. Quando accenderai la luce, ti accorgerai che non c'era nulla di spaventoso”. Anche il mare lì sotto era nero come il buio. Ernani aspettava tranquillo che qualcuno accendesse la luce, qualsiasi tipo di luce. Cominciò a preoccuparsi quando vide il fratello Vittorio che discendeva tutta la nave per guadagnare la via del mare. Allora prese il coraggio a quattro mani e afferrò una ciambella di sughero che un marinaio tedesco gli stava porgendo. Fece passare prima la testa, poi le braccia e poi l'addome; ora la ciambella era all'altezza del pube. Ernani era un po' dubbioso, allora guardò il marinaio tedesco che con il pollice alzato gli diede l'assenso. Si gettò quindi dal ponte e il salvagente appena toccata la superficie del mare produsse un colpo di frusta che spaccò in due la spina dorsale del ragazzo.
Il fratello Vittorio riuscì a raggiungere senza danni il bordo dell'acqua, ma non essendo avvezzo al mare, bevve acqua satura del combustibile fuoriuscito dal serbatoio della nave, morendo di morte atroce.
Il Maestro Faraboli rimase fermo come una statua. Che cosa può fare un violinista su una nave che sta affondando in mare aperto? Il dottore soccorre, il marinaio cala la scialuppa, il soldato vigila che tutto l'equipaggio si metta in salvo, il prete prega. “Ma un musicista che cazzo può fare? Suonare il violino?”, pensò. Lo trovarono appeso ad una fune, impiccato.
I relitti che galleggiavano fornirono al dottor Bergamo una sorta di zattera. Il medico si aggrappò a quel pezzo di legno – forse un tavolo o un pezzo di pianoforte o una cassa di viveri - dopo aver sdegnosamente rifiutato un comodo passaggio sulla scialuppa più confortevole del capitano. Lo sentirono in mezzo al mare ripetere incessantemente una strofa del 5 maggio di Manzoni: “... come sul capo al naufrago, l'onda s'avvolge e pesa”. Morì assiderato, sotto gli occhi del capitano dell'Arandora Star, Sir Edgar Moulton.
Alla fine di contarono più di ottocento vittime.
476 italiani che persero la vita.
48 provenivano da Bardi, in provincia di Parma.

mercoledì 21 marzo 2018

La crisi e l'arte della coltivazione del basilico




La mia pianticella di basilico si sta rinvigorendo. I primi raggi di sole hanno su di lei un effetto taumaturgico.
Ieri mi sono alzato che albeggiava, quando notte non è più e giorno ancora non è. Ho tolto il crocchio che le ho messo da riparo posticcio per la notte e l'ho fatta baciare dal sole. Non chiedetemi il perchè, ma ho sentito il suo ringraziamento. Chiaramente. Credo di essere un ottimo tutore della mia pianticella di basilico. Forse è l'unico lavoro che so davvero fare con le mie mani. Non roba astratta, come scrivere, ma qualcosa che ha a che fare direttamente con la materia e la vita. E l'immediata cruda responsabilità che ne deriva.

Il mio basilico ha tre anni. L'ho piantato io, miracolosamente. Ed è sopravvissuto, un altro miracolo riuscito contro ogni previsione (fatta soprattutto da mia moglie: “Gli uomini non hanno il pollice verde e tu in particolare”). Ogni anno mi regala centinaia di foglie, con le quali confeziono una decina di vasetti di pesto, che comunque mi costano tre volte quanto pagherei l'equivalente al pastificio della Olga. Ma per una decina di volte all'anno posso dire di mangiare un generoso piatto di trenette con il mio pesto. Per questa frase ho combattuto bibliche guerre contro la tramontana, sveglie notturne per metterla al riparo dalla troppa pioggia, placcaggi improvvisi a bimbi troppo ansiosi di staccarle le foglie.
So che non potrei mai disfarmene. Perchè, a conti fatti, è, a tutt'oggi, l'unica vera continuità della mia vita. Con questo mi ripaga, non con le foglie di squisito basilico. Ma per il fatto semplice e definitivo che è lì, sul mio balcone e che protegge le mie incertezze, come io proteggo le sue. Accanto al suo esile gambo trovo riparo come un re sotto ad una millenaria quercia. Spesso ci parlo, nutro la sua terra con briciole di pane, la disseto con abbondanti vaporizzazioni nei momenti di calura. Pochi mi capiscono. Forse solo mia figlia, ancora troppo giovane per il tetro cinismo. E so che visto da lontano, anche solo da un altro terrazzo, il mio basilico è una pianticella patetica, quasi una caricatura; e altrettanto dicasi di me, di me accanto a lei. Ma questo non è di alcuna importanza: molte cose viste da fuori perdono il loro senso.

Ho deciso che quet'anno trapianterò la mia pianticella nella serra del mio amico Brunin. Perchè è giusto che faccia la sua strada. Per amor suo, per rispetto della vita. Perchè cresca davvero e diventi, finalmente adulta. Per darle una continuità così naturale da sembrare una favola. Una favola perfino patetica, se vista da lontano.

Non so se potrò fare qualcosa di più giusto per ciò che sono riuscito a fare attecchire in un luogo angusto, nei corti orizzonti. E crescerà ancora, e io con lei, in epoche più floride, in orizzonti più vasti. Sarà un successo solo se crescerà là, solo chi è riuscito a sopravvivere qui.

L'arte della coltivazione del basilico in tempo di guerra non fabbrica pace, lo so. Ma rende giustizia alla vita, alla vita che è vita anche in tempo di guerra. E vi sembrerò patetico, amici miei, solo se mi state guardando da lontano.
Da molto lontano...

martedì 14 marzo 2017

Triste storia





Uno, due, tre, quattro, cinque, sei e sette. A posto, anche questa sera il compitino è fatto. “Conta sette stelle per sette sere di seguito e il tuo desiderio sarà esaudito”. Me lo disse Libero, a Benevento, nel corso di una notte corrusca. È un consiglio che seguo tuttora. Non sempre. Talvolta. Succede che la nebbia faccia crollare l'ultimo baluardo del fato. Talvolta i contorni dell'oggetto agognato si confondono, andando a sconfinare in altri campi, il giorno seguente. A volte mi chiedo se, nel corso di questo infantile rito, ci debba essere necessariamente uniformità di intenti. Oppure se conti sempre l'ultimo, irraggiungibile e contingente desiderio. Mi sono sorpreso a barare, anche, spudoratamente. Contandone sette a mezzanotte meno un quarto e altrettante appena scoccato il nuovo giorno. Qualche limpida sera ne contavo quattordici. Il trucchetto lo mettevo in atto a Londra, quando credevo ancora al concretizzarsi dei sogni. Eppoi è così difficile imbattersi in cielo stellato a Londra. È per questo che gli inglesi sono perennemente tristi.
L'appuntamento è fissato per le sette e trenta. Il luogo è sempre lo stesso, i tetri carruggi di Genova; la zona un tempo nobile della città, ora alla mercé di spacciatori e puttane. Delle stelle nemmeno l'ombra nei ritagli di cielo concessi dai perimetri superiori delle stamberghe. Guido non c'è. È in ritardo, come al solito. Giochicchio, per un attimo, con l'indice cronologico del suo ultimo libro. Era solito commissionarmelo: troppo noioso spulciare nomi e date. Mi diceva spesso che potevo avere un futuro come agiografo. Mi scosto dal citofono, rimetto i fogli nella carpetta azzurra e faccio due passi.
Coriandoli. Il Carnevale. L'allegoria del Carnevale. Me ne ero quasi scordato. Solo un calcio ai tondi stampini colorati ammonticchiati sul ciglio della strada ne rivelava lo svolgimento. Mi chiedo se la maschera indossata per celare l'identità cada per incanto alla mezzanotte del martedì Grasso per restituire il volto abituale il mercoledì delle Ceneri. O se sotto la maschera c'è un trucco, pesante e indelebile. E si sopravviva con il pesante cilicio di un volto preso a prestito. Per taluni è un Carnevale incessante, obbligato. Senza via di scampo. Si è costretti a ballare tanghi e mazurke controvoglia. Perdendo anche il ritmo, ma continuando a muoversi vorticosamente nel veglione della vita. Ci si accorge troppo tardi, quando succede, che si è sprovvisti di invito. Ma si continua a ballare. Nonostante tutto. Cercando di non fare scivolare una maschera fissata con legature posticce. È difficile non sottostare a questo compromesso, il prezzo da pagare è alto. Il più alto.
La conobbi in Portogallo, nella regione montuosa del Tras Os Montes, una zona selvaggia. Poca gente. Credo che noi due fossimo stati gli unici turisti che gli anziani vestiti di nero vedevano da anni. La stavano guardando a debita distanza. Era seduta sugli scalini di una chiesa, a Macedo Dos Cavaleiros, nello spazio che faceva da punto di ritrovo. I maschi giocavano a bocce usando pietre, le donne osservavano il niente, malinconicamente assorte, mute, dopo aver sviscerato lo scibile intonso. Lei non amava la gente. Lo capii dallo sguardo freddo con il quale mi accolse. Mi sedetti accanto a lei, senza parole. Le indicai sulla cartina il punto esatto dove ci trovavamo. Lei assentì con la testa, senza voltare la stessa. Attimi di lungo silenzio. Un cane abbaia, qualche metro più in là. Poi se ne va, caracollando. Caldo. Lei non amava la gente. Mi alzai nell'atto di andarmene, senza parole. “Dove vai”, mi disse stizzita. Non c'erano più autobus sino al giorno seguente e lei si doveva recare a Lisbona. Le tracciai con il dito l'itinerario di massima che mi ero prefissato. Si alzò. Ci avviammo verso la macchina che avevo affittato per il viaggio. Passammo due giorni assieme, scambiandoci sguardi laterali con la complicità dei finestrini chiusi. Mangiavamo in macchina, su fogli traslucidi e bisunti. Manipolava continuamente i tasti della radio senza mai essere soddisfatta del risultato. Era la terza di quattro figli. Le tasche piene di escudos e la testa vuota di prospettive. Era tutto quello che riuscito a carpirle. Lei mi chiese da dove venivo. Le dissi dall'Italia. Lei mi disse: lo so, ma da dove. Le dissi il posto. Lei mi rispose: fantastico. Tutto qui. Parlava poco; questo perché conosceva poche parole e non credeva in nessuna di esse. Normalmente mi avrebbe annoiato, solo che allora i miei sensi erano svegli ad ogni genere di amicizia umana. Bruttina, sciatta, ma con due mani bellissime, con unghie pulite e curate, dita lunghe e affusolate. Dita da artista. Aveva lo sguardo fisso di chi cerca qualcuno nella folla. La faccia era giovane, ma portava già la traccia latente del futuro di cui il presente è una maschera debolissima. Era diretta a Lisbona per fare visita ad una zia e a cercare qualcosa che non c'è. Fuggiva da un paesino vicino a Liegi. Me lo disse la prima sera, quando ci regalammo due righe di chiacchiere da ospedale prima di addormentarci. Quella sera sorrise, anche. Con moderazione, naturalmente. Poi ammutolì improvvisamente, vergognandosi di essere stata colta in flagrante. Appoggiò la testa allo zaino, socchiuse gli occhi e chiuse la porta dietro di sé.
Arrivammo la sera seguente, all'imbrunire, sulla costa occidentale dopo aver attraversato la campagna portoghese, perennemente avvolta nel dormiveglia della domenica mattina. Sostammo per un attimo ad ammirare il tramonto sull'oceano. Prima di scendere dalla macchina, mi disse qualche parola, cui non diedi peso, affascinato come ero dalla bellezza perlacea del paesaggio. Lei sembrava felice; percorsa da brividi compiacimento. Presi il maglione dallo zaino e mi accesi una sigaretta. La persi di vista un attimo. Poi la vidi. Era là. In bilico tra gli scogli e il mare. Tra la vita e la morte. Qualche attimo, titubante, pensierosa; nella penombra solo il punto rosso della sigaretta – dell'ultima sigaretta - le rischiarava i lineamenti. Pensava che quello fosse il luogo ideale per morire. Me lo disse - questo mi disse, cristosanto, stupido che non sono altro – appena prima. Poco prima di spiccare l'ultimo volo. Poteva essere il posto ideale. Poca gente, quasi nessuno. Qualche appassionato di footing. Qualche nostalgico in preda ad elucubrazioni. Gabbiani. Solo loro a osservare quel volo di cento metri nel nulla. Lei non amava la gente. Era sicura che nessuno avrebbe voltato la faccia inorridito. Niente sirene, né pompieri. Niente stampa. Niente clamori. Solo il silenzio e il frangersi delle onde, laggiù in basso. Il mondo che succede e basta. Il faro di Capo Carvoeiro. Qualche cicca per terra. Involucri metallizzati di preservativi da poco prezzo. Niente schiamazzi. Il suo corpo che va a confondersi con le cianfrusaglie restituite dal mare. Niente clamori. Solo la lampara di un gozzo, in lontananza.
Nessuno.
L'orizzonte confuso con la linea disegnata dall'oceano. L'odore acre del mare. Nessuno. La tramontana che spira gelida, incurante dell'attimo. Il freddo ha cominciato a salirmi dentro, venato di sentimenti privi di contorni. Il faro di Peniche che colora il cielo di rosso, ad intermittenza. Tavoli di formìca, qualche centinaio di metri più in là, sotto la luce fioca di un tramonto di maggio che va a soccorrere le lampadine a basso voltaggio di una insegna presa in affitto.
Nessuno.
Solo gli scogli protesi verso l'alto, quasi a scongiurare il gesto, quasi a supplicare un ripensamento. Ma è buio: il buio sospende tutto. Non c'è nulla, nel buio, che possa cambiare. Tutto è immobile.
La stampa portoghese diede ampio risalto all'avvenimento. Tante foto, tanta gente. Il suo corpo esposto, ridicolizzato, violentato. Furono chiamati i suoi parenti. Caldo. Insetti. Volute di fumo, infradito, polvere, lacrime. Tanta gente. Bambini, figli di curiosi, mangiano pop corn, osservando svogliatamente il luogo della tragedia. Sibili di lattine, walkman. Caldo. Polvere, lacrime. Bisbigliati scambi di parole. Non più pescherecci, ma yacht d'alto bordo, con signorotti sulla poppa a fumare sigari cubani e scrollare la testa, con la curiosità morbosa anfrattata dietro alla commiserazione. Lei non amava la gente. Se solo lo avesse immaginato.
Riprovo a suonare il campanello.
Nessuno.

Le otto e mezza. Forse questa sera Guido è terribilmente impegnato. Mi avvio a piedi verso la stazione Brignole. In prossimità di piazza De' Ferrari mi si apre davanti agli occhi uno spiraglio di cielo stellato. Meno male. Uno, due, tre…

domenica 12 marzo 2017

Donne altrimenti amate



Ore 15.30: Chiavari, Piazza della Madonna dell’Orto.
Passa una donna elegante, molto elegante. Sa di essere osservata. Accentua l’ancheggiamento. Poi incontra quella che sembra essere una sua amica; forse è solo una conoscente. Si soffermano a parlare. Parlano in modo sommesso, guardandosi continuamente intorno. No, non c’è complicità. Sembrano insofferenti alla fermata costretta e inaspettata. Il cellulare di una delle due trilla con una buffa musichetta sincopata. Poi si staccano con un gesto svogliato. Lei riprende ad ancheggiare fino a sparire dietro la piazza.
Ore 15.41: un uomo osserva l’interno della sua ventiquattr’ore. Una bella borsa di cuoio. Fatta artigianalmente, probabilmente in qualche conceria di uno sperduto paesino della campagna toscana. È consunta e vissuta. Sta per due minuti abbondanti in una posizione innaturale: con la gamba destra alzata in modo tale da formare con il tronco un angolo di novanta gradi. Un fenicottero metropolitano. Non trova ciò che cercava all'interno della borsa. Il viso si contrae in un’espressione di rabbia mista a costernazione. Appoggia la gamba destra fino a farla toccare il suolo. La borsa è ancora aperta, qualche foglio bianco fa capolino dall’orlo trapuntato. Un post-it di color giallo sfugge dall'ellisse formata dai due lembi della cerniera e plana sul selcio (sembra una farfalla). Cerca con gli occhi un bar, una pasticceria, un caffè; una sosta per riordinare le idee. Scorge il bar Pippo, di fianco alla cattedrale. È incerto se entrare o tirare avanti. Poi prende coraggio ed entra nella luce.
Ore 16.11: ripassa la donna elegante. Ha un paio di borse di plastica aggrappate alle dita oramai esangui. La prima è griffata da una gastronomia del carruggio. È mezza vuota: cibarie per due, forse tre persone. Forse per lei e la figlia, oppure per lei e il marito. Sorregge quella borsina di plastica trasparente con distacco per niente malcelato. Le pesano le faccende domestiche; l’apparecchiare la tavola, lo sbarazzare, il riordinare: il dovere in qualche modo servire un’altra persona. Sogna una vita da signora con domestica e giardiniera, vacanze al mare e settimane bianche, parrucchiere ed estetiste: benessere. L’altra borsa è di carta fine, colorata. Appena visibile la ragione sociale della ditta, una boutique di grandi firme, nascosta in una stradina secondaria, tra il pescivendolo ed il ferramenta. Niente di voluminoso all’interno: una camicetta, una gonna di lino purissimo, forse un completino intimo. Questa borsa è messa a coprire l’altra, quella di plastica riciclabile e finissima di spessore. La ragione vera dello shopping deve essere ben in vista. Attraversa disinvolta la piazza nella parte più centrale dell’emiciclo, come a calpestare un’invisibile passerella. È contrariata dal fatto che nessuno si volti a guardarla. Gli anni passano, anche per lei. Ma lei non si rassegna. Improvvisamente si slaccia anche il quarto bottone della camicetta che spunta sotto la pelliccia ecologica. Ancheggiando scompare dietro la sagoma di un autobus in sosta.
Ore 16.38: spunta una ragazza grassoccia dall’angolo della piazza che dà sulla canonica. Cammina sfiorando i muri, saltellando, ogni tanto, per evitare qualche rifiuto organico animale. I capelli raccolti a metà della nuca, la peluria nascosta dal bavero della giacca rialzato. Tiene gli occhi in basso, fintamente assorta, riuscendo ad eludere tanto gli occhi dei passanti quanto le merde spalmate per terra. Va verso la cattedrale. Sgancia qualche spicciolo ai questuanti appostati davanti all’ingresso. Si ferma anche a parlare con loro. Fa come un cenno di ringraziamento in risposta a un ipotetico complimento. Solo qualche secondo però. Ha fretta, una fretta maledetta. Si stacca da quel dialogo e entra nella cattedrale.
Ore 16.42: rientra in scena l’uomo della ventiquattr’ore. Esce dal bar con il viso paonazzo. Ha in mano un foglio, ben stretto dai due lati, tra il pollice e l’indice della mano sinistra. Non vuole rovinarlo, è troppo importante. Appoggia la borsa su un tavolino all'aperto. Cerca una carpetta per preservare il foglio da potenziali spiegazzamenti. Ha l’espressione soddisfatta di chi ha trovato ciò che ha cercato dopo essere stato quasi certo di averlo perso per sempre. Si guarda per un attimo la punta delle scarpe di gran classe che indossa. Scarpe inglesi, finemente rifinite e comode come un guanto. Prima di prendere la via dei parcheggi custoditi si sbarazza di qualche briciola di tramezzino vellicando con la punta delle dita il loden blu. Forse era forfora.
Ore 16.45: la ragazza grassoccia esce dalla cattedrale. Sembra impaurita. Prende la via laterale che conduce alla canonica. Affretta il passo fino a raggiungere l’intensità del trotto. Non si accorge nemmeno del saluto caloroso che prova a rivolgerle un prevosto appena uscito dalla libreria delle Paoline. Qualche ciuffo di capelli esce dallo chignon. Il bavero si affloscia. Se ne accorge e lo rialza, prima di scomparire tra il buio della viuzza.
Ore 16.48: spunta la donna elegante. Non ha più le borse tra le mani. Ora ha una valigetta nera, di quelle impermeabili. Ripercorre la piazza, però questa volta sceglie di perimetrare il tragitto, scegliendo il percorso più nascosto. Per un attimo si anfratta dietro le colonne del porticato della cattedrale. Riappare pochi istanti dopo, proprio di fianco alla statua del Papa che veniva dall'Est. Pochi passi ed è inghiottita dalle porte del bar Pippo. Sceglie un tavolo visibile anche dall’esterno. Ordina, si siede. Apre la valigetta, raccatta qualche cosa per terra. Sorseggia l’aperitivo facendo tintinnare il ghiaccio. Un giovanotto seduto un tavolo più in là ammira il suo decolté con occhiate lunghe e profonde. “Sono ancora una bella donna”, pensa lei. È soddisfatta; il compiacimento traspare dagli occhi leggermente bistrati. Improvvisamente si alza, lasciando il bicchiere - un tumbler - a metà. Non tocca i salatini, ma fa incetta di patatine, prima di uscire dalla porta laterale, proprio di fronte all’entrata secondaria della cattedrale. Il giovanotto pensa che ha perso una buona occasione e si rituffa nella birra media.
Ore 16.50: la Volvo del signore grassoccio si ferma davanti alla cattedrale. È parcheggiata in doppia fila, le quattro frecce illuminate. Esce dalla macchina con una velocità inattesa e insospettabile. Rallenta il passo appena sale il gradino marmoreo dell’andito della cattedrale. Si è accorto di attirare gli sguardi dei passanti. È senza cappotto. I bottoni della camicia sollecitati al limite della sopportazione meccanica dall’adipe prorompente. La cravatta, una regimental nera e gialla, allentata all'altezza del collo taurino. Prima di entrare nella cattedrale allontana con rabbia la mano del questuante.

Ore 17.20: l’uomo grassoccio esce con passo misurato dalla cattedrale. L’ultimo bottone della camicia è rientrato nell’asola. La cravatta aderisce perfettamente al collo. Una cravatta di gran classe, modellata da una sartoria toscana. La lingua di stoffa gialla e blu nasconde il lavoro immane dei bottoni ventrali. Con passo deciso e cadenzato si avvia alla portiera della vettura. L’apre e si accomoda. Non si accorge nemmeno della contravvenzione strozzata nel tergicristallo. Gli ammortizzatori si assestano, soddisfacendo la nuova taratura della vettura. La macchina imbocca il carruggio laterale. Si ferma poco dopo, all’altezza dell’entrata laterale della cattedrale. Sale una seconda persona, nascosta dall’ombra disegnata dal perimetro dei muri. La macchina sgomma e se ne va, dopo aver evitato il contatto tra i pneumatici e il rivolo di sangue che esce dal portone della casa a fianco.