Ore
15.30: Chiavari, Piazza della Madonna dell’Orto.
Passa
una donna elegante, molto elegante. Sa di essere osservata. Accentua
l’ancheggiamento. Poi incontra quella che sembra essere una sua
amica; forse è solo una conoscente. Si soffermano a parlare. Parlano
in modo sommesso, guardandosi continuamente intorno. No, non c’è
complicità. Sembrano insofferenti alla fermata costretta e
inaspettata. Il cellulare di una delle due trilla con una buffa
musichetta sincopata. Poi si staccano con un gesto svogliato. Lei
riprende ad ancheggiare fino a sparire dietro la piazza.
Ore
15.41: un uomo osserva l’interno della sua ventiquattr’ore.
Una bella borsa di cuoio. Fatta artigianalmente, probabilmente in
qualche conceria di uno sperduto paesino della campagna toscana. È
consunta e vissuta. Sta per due minuti abbondanti in una posizione
innaturale: con la gamba destra alzata in modo tale da formare con il
tronco un angolo di novanta gradi. Un fenicottero metropolitano. Non
trova ciò che cercava all'interno della borsa. Il viso si contrae in
un’espressione di rabbia mista a costernazione. Appoggia la gamba
destra fino a farla toccare il suolo. La borsa è ancora aperta,
qualche foglio bianco fa capolino dall’orlo trapuntato. Un post-it
di color giallo sfugge dall'ellisse formata dai due lembi della
cerniera e plana sul selcio (sembra una farfalla). Cerca con gli
occhi un bar, una pasticceria, un caffè; una sosta per riordinare le
idee. Scorge il bar Pippo, di fianco alla cattedrale. È incerto se
entrare o tirare avanti. Poi prende coraggio ed entra nella luce.
Ore
16.11: ripassa la donna elegante. Ha un paio di borse di plastica
aggrappate alle dita oramai esangui. La prima è griffata da una
gastronomia del carruggio. È mezza vuota: cibarie per due, forse tre
persone. Forse per lei e la figlia, oppure per lei e il marito.
Sorregge quella borsina di plastica trasparente con distacco per
niente malcelato. Le pesano le faccende domestiche; l’apparecchiare
la tavola, lo sbarazzare, il riordinare: il dovere in qualche modo
servire un’altra persona. Sogna una vita da signora con domestica e
giardiniera, vacanze al mare e settimane bianche, parrucchiere ed
estetiste: benessere. L’altra borsa è di carta fine, colorata.
Appena visibile la ragione sociale della ditta, una boutique di
grandi firme, nascosta in una stradina secondaria, tra il
pescivendolo ed il ferramenta. Niente di voluminoso all’interno:
una camicetta, una gonna di lino purissimo, forse un completino
intimo. Questa borsa è messa a coprire l’altra, quella di plastica
riciclabile e finissima di spessore. La ragione vera dello shopping
deve essere ben in vista. Attraversa disinvolta la piazza nella parte
più centrale dell’emiciclo, come a calpestare un’invisibile
passerella. È contrariata dal fatto che nessuno si volti a
guardarla. Gli anni passano, anche per lei. Ma lei non si rassegna.
Improvvisamente si slaccia anche il quarto bottone della camicetta
che spunta sotto la pelliccia ecologica. Ancheggiando scompare dietro
la sagoma di un autobus in sosta.
Ore
16.38: spunta una ragazza grassoccia dall’angolo della piazza
che dà sulla canonica. Cammina sfiorando i muri, saltellando, ogni
tanto, per evitare qualche rifiuto organico animale. I capelli
raccolti a metà della nuca, la peluria nascosta dal bavero della
giacca rialzato. Tiene gli occhi in basso, fintamente assorta,
riuscendo ad eludere tanto gli occhi dei passanti quanto le merde
spalmate per terra. Va verso la cattedrale. Sgancia qualche spicciolo
ai questuanti appostati davanti all’ingresso. Si ferma anche a
parlare con loro. Fa come un cenno di ringraziamento in risposta a un
ipotetico complimento. Solo qualche secondo però. Ha fretta, una
fretta maledetta. Si stacca da quel dialogo e entra nella cattedrale.
Ore
16.42: rientra in scena l’uomo della ventiquattr’ore. Esce
dal bar con il viso paonazzo. Ha in mano un foglio, ben stretto dai
due lati, tra il pollice e l’indice della mano sinistra. Non vuole
rovinarlo, è troppo importante. Appoggia la borsa su un tavolino
all'aperto. Cerca una carpetta per preservare il foglio da potenziali
spiegazzamenti. Ha l’espressione soddisfatta di chi ha trovato ciò
che ha cercato dopo essere stato quasi certo di averlo perso per
sempre. Si guarda per un attimo la punta delle scarpe di gran classe
che indossa. Scarpe inglesi, finemente rifinite e comode come un
guanto. Prima di prendere la via dei parcheggi custoditi si sbarazza
di qualche briciola di tramezzino vellicando con la punta delle dita
il loden blu. Forse era forfora.
Ore
16.45: la ragazza grassoccia esce dalla cattedrale. Sembra
impaurita. Prende la via laterale che conduce alla canonica. Affretta
il passo fino a raggiungere l’intensità del trotto. Non si accorge
nemmeno del saluto caloroso che prova a rivolgerle un prevosto appena
uscito dalla libreria delle Paoline. Qualche ciuffo di capelli esce
dallo chignon. Il bavero si affloscia. Se ne accorge e lo rialza,
prima di scomparire tra il buio della viuzza.
Ore
16.48: spunta la donna elegante. Non ha più le borse tra le
mani. Ora ha una valigetta nera, di quelle impermeabili. Ripercorre
la piazza, però questa volta sceglie di perimetrare il tragitto,
scegliendo il percorso più nascosto. Per un attimo si anfratta
dietro le colonne del porticato della cattedrale. Riappare pochi
istanti dopo, proprio di fianco alla statua del Papa che veniva
dall'Est. Pochi passi ed è inghiottita dalle porte del bar Pippo.
Sceglie un tavolo visibile anche dall’esterno. Ordina, si siede.
Apre la valigetta, raccatta qualche cosa per terra. Sorseggia
l’aperitivo facendo tintinnare il ghiaccio. Un giovanotto seduto un
tavolo più in là ammira il suo decolté con occhiate lunghe e
profonde. “Sono ancora una bella donna”, pensa lei. È
soddisfatta; il compiacimento traspare dagli occhi leggermente
bistrati. Improvvisamente si alza, lasciando il bicchiere - un
tumbler - a metà. Non tocca i salatini, ma fa incetta di patatine,
prima di uscire dalla porta laterale, proprio di fronte all’entrata
secondaria della cattedrale. Il giovanotto pensa che ha perso una
buona occasione e si rituffa nella birra media.
Ore
16.50: la Volvo del signore grassoccio si ferma davanti alla
cattedrale. È parcheggiata in doppia fila, le quattro frecce
illuminate. Esce dalla macchina con una velocità inattesa e
insospettabile. Rallenta il passo appena sale il gradino marmoreo
dell’andito della cattedrale. Si è accorto di attirare gli sguardi
dei passanti. È senza cappotto. I bottoni della camicia sollecitati
al limite della sopportazione meccanica dall’adipe prorompente. La
cravatta, una regimental nera e gialla, allentata all'altezza del
collo taurino. Prima di entrare nella cattedrale allontana con rabbia
la mano del questuante.
Ore
17.20: l’uomo grassoccio esce con passo misurato dalla
cattedrale. L’ultimo bottone della camicia è rientrato nell’asola.
La cravatta aderisce perfettamente al collo. Una cravatta di gran
classe, modellata da una sartoria toscana. La lingua di stoffa gialla
e blu nasconde il lavoro immane dei bottoni ventrali. Con passo
deciso e cadenzato si avvia alla portiera della vettura. L’apre e
si accomoda. Non si accorge nemmeno della contravvenzione strozzata
nel tergicristallo. Gli ammortizzatori si assestano, soddisfacendo la
nuova taratura della vettura. La macchina imbocca il carruggio
laterale. Si ferma poco dopo, all’altezza dell’entrata laterale
della cattedrale. Sale una seconda persona, nascosta dall’ombra
disegnata dal perimetro dei muri. La macchina sgomma e se ne va, dopo
aver evitato il contatto tra i pneumatici e il rivolo di sangue che
esce dal portone della casa a fianco.
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