domenica 12 marzo 2017

Donne altrimenti amate



Ore 15.30: Chiavari, Piazza della Madonna dell’Orto.
Passa una donna elegante, molto elegante. Sa di essere osservata. Accentua l’ancheggiamento. Poi incontra quella che sembra essere una sua amica; forse è solo una conoscente. Si soffermano a parlare. Parlano in modo sommesso, guardandosi continuamente intorno. No, non c’è complicità. Sembrano insofferenti alla fermata costretta e inaspettata. Il cellulare di una delle due trilla con una buffa musichetta sincopata. Poi si staccano con un gesto svogliato. Lei riprende ad ancheggiare fino a sparire dietro la piazza.
Ore 15.41: un uomo osserva l’interno della sua ventiquattr’ore. Una bella borsa di cuoio. Fatta artigianalmente, probabilmente in qualche conceria di uno sperduto paesino della campagna toscana. È consunta e vissuta. Sta per due minuti abbondanti in una posizione innaturale: con la gamba destra alzata in modo tale da formare con il tronco un angolo di novanta gradi. Un fenicottero metropolitano. Non trova ciò che cercava all'interno della borsa. Il viso si contrae in un’espressione di rabbia mista a costernazione. Appoggia la gamba destra fino a farla toccare il suolo. La borsa è ancora aperta, qualche foglio bianco fa capolino dall’orlo trapuntato. Un post-it di color giallo sfugge dall'ellisse formata dai due lembi della cerniera e plana sul selcio (sembra una farfalla). Cerca con gli occhi un bar, una pasticceria, un caffè; una sosta per riordinare le idee. Scorge il bar Pippo, di fianco alla cattedrale. È incerto se entrare o tirare avanti. Poi prende coraggio ed entra nella luce.
Ore 16.11: ripassa la donna elegante. Ha un paio di borse di plastica aggrappate alle dita oramai esangui. La prima è griffata da una gastronomia del carruggio. È mezza vuota: cibarie per due, forse tre persone. Forse per lei e la figlia, oppure per lei e il marito. Sorregge quella borsina di plastica trasparente con distacco per niente malcelato. Le pesano le faccende domestiche; l’apparecchiare la tavola, lo sbarazzare, il riordinare: il dovere in qualche modo servire un’altra persona. Sogna una vita da signora con domestica e giardiniera, vacanze al mare e settimane bianche, parrucchiere ed estetiste: benessere. L’altra borsa è di carta fine, colorata. Appena visibile la ragione sociale della ditta, una boutique di grandi firme, nascosta in una stradina secondaria, tra il pescivendolo ed il ferramenta. Niente di voluminoso all’interno: una camicetta, una gonna di lino purissimo, forse un completino intimo. Questa borsa è messa a coprire l’altra, quella di plastica riciclabile e finissima di spessore. La ragione vera dello shopping deve essere ben in vista. Attraversa disinvolta la piazza nella parte più centrale dell’emiciclo, come a calpestare un’invisibile passerella. È contrariata dal fatto che nessuno si volti a guardarla. Gli anni passano, anche per lei. Ma lei non si rassegna. Improvvisamente si slaccia anche il quarto bottone della camicetta che spunta sotto la pelliccia ecologica. Ancheggiando scompare dietro la sagoma di un autobus in sosta.
Ore 16.38: spunta una ragazza grassoccia dall’angolo della piazza che dà sulla canonica. Cammina sfiorando i muri, saltellando, ogni tanto, per evitare qualche rifiuto organico animale. I capelli raccolti a metà della nuca, la peluria nascosta dal bavero della giacca rialzato. Tiene gli occhi in basso, fintamente assorta, riuscendo ad eludere tanto gli occhi dei passanti quanto le merde spalmate per terra. Va verso la cattedrale. Sgancia qualche spicciolo ai questuanti appostati davanti all’ingresso. Si ferma anche a parlare con loro. Fa come un cenno di ringraziamento in risposta a un ipotetico complimento. Solo qualche secondo però. Ha fretta, una fretta maledetta. Si stacca da quel dialogo e entra nella cattedrale.
Ore 16.42: rientra in scena l’uomo della ventiquattr’ore. Esce dal bar con il viso paonazzo. Ha in mano un foglio, ben stretto dai due lati, tra il pollice e l’indice della mano sinistra. Non vuole rovinarlo, è troppo importante. Appoggia la borsa su un tavolino all'aperto. Cerca una carpetta per preservare il foglio da potenziali spiegazzamenti. Ha l’espressione soddisfatta di chi ha trovato ciò che ha cercato dopo essere stato quasi certo di averlo perso per sempre. Si guarda per un attimo la punta delle scarpe di gran classe che indossa. Scarpe inglesi, finemente rifinite e comode come un guanto. Prima di prendere la via dei parcheggi custoditi si sbarazza di qualche briciola di tramezzino vellicando con la punta delle dita il loden blu. Forse era forfora.
Ore 16.45: la ragazza grassoccia esce dalla cattedrale. Sembra impaurita. Prende la via laterale che conduce alla canonica. Affretta il passo fino a raggiungere l’intensità del trotto. Non si accorge nemmeno del saluto caloroso che prova a rivolgerle un prevosto appena uscito dalla libreria delle Paoline. Qualche ciuffo di capelli esce dallo chignon. Il bavero si affloscia. Se ne accorge e lo rialza, prima di scomparire tra il buio della viuzza.
Ore 16.48: spunta la donna elegante. Non ha più le borse tra le mani. Ora ha una valigetta nera, di quelle impermeabili. Ripercorre la piazza, però questa volta sceglie di perimetrare il tragitto, scegliendo il percorso più nascosto. Per un attimo si anfratta dietro le colonne del porticato della cattedrale. Riappare pochi istanti dopo, proprio di fianco alla statua del Papa che veniva dall'Est. Pochi passi ed è inghiottita dalle porte del bar Pippo. Sceglie un tavolo visibile anche dall’esterno. Ordina, si siede. Apre la valigetta, raccatta qualche cosa per terra. Sorseggia l’aperitivo facendo tintinnare il ghiaccio. Un giovanotto seduto un tavolo più in là ammira il suo decolté con occhiate lunghe e profonde. “Sono ancora una bella donna”, pensa lei. È soddisfatta; il compiacimento traspare dagli occhi leggermente bistrati. Improvvisamente si alza, lasciando il bicchiere - un tumbler - a metà. Non tocca i salatini, ma fa incetta di patatine, prima di uscire dalla porta laterale, proprio di fronte all’entrata secondaria della cattedrale. Il giovanotto pensa che ha perso una buona occasione e si rituffa nella birra media.
Ore 16.50: la Volvo del signore grassoccio si ferma davanti alla cattedrale. È parcheggiata in doppia fila, le quattro frecce illuminate. Esce dalla macchina con una velocità inattesa e insospettabile. Rallenta il passo appena sale il gradino marmoreo dell’andito della cattedrale. Si è accorto di attirare gli sguardi dei passanti. È senza cappotto. I bottoni della camicia sollecitati al limite della sopportazione meccanica dall’adipe prorompente. La cravatta, una regimental nera e gialla, allentata all'altezza del collo taurino. Prima di entrare nella cattedrale allontana con rabbia la mano del questuante.

Ore 17.20: l’uomo grassoccio esce con passo misurato dalla cattedrale. L’ultimo bottone della camicia è rientrato nell’asola. La cravatta aderisce perfettamente al collo. Una cravatta di gran classe, modellata da una sartoria toscana. La lingua di stoffa gialla e blu nasconde il lavoro immane dei bottoni ventrali. Con passo deciso e cadenzato si avvia alla portiera della vettura. L’apre e si accomoda. Non si accorge nemmeno della contravvenzione strozzata nel tergicristallo. Gli ammortizzatori si assestano, soddisfacendo la nuova taratura della vettura. La macchina imbocca il carruggio laterale. Si ferma poco dopo, all’altezza dell’entrata laterale della cattedrale. Sale una seconda persona, nascosta dall’ombra disegnata dal perimetro dei muri. La macchina sgomma e se ne va, dopo aver evitato il contatto tra i pneumatici e il rivolo di sangue che esce dal portone della casa a fianco.

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