Si
avvicina al foglio a piccoli passi. Muovendo le zampe al ritmo
nascosto di una musichetta sincopata. Poi sale sulla tastiera. Si
arrampica sulla Q ragionando sul da farsi. Improvvisamente sceglie la
diagonale, strisciando sulla S e sulla X. Come estremo sberleffo alla
mia mano, poggiata a qualche centimetro, si adagia sulla barra
spaziatrice, percorrendola in tutta la sua interezza. Non muovo la
mano, come se il ragionare sui tragitti quotidiani di una mosca
potesse riempire il vuoto concreto del foglio bianco. Incipit, corpo
centrale, chiusa. Tutto insieme. Con la precisione di un computer cui
sono stati immessi i dati, con l'input di ordinarli. Click.
Si
arrampica sulla stampante sfidando la risma di A4 pericolosamente in
bilico su di essa. Delusa scende sul tavolino, preferendo lo
sfavillio colorato di gomme e temperini, penne e lampostil. Mi chiedo
dove vanno a finire le e-mail cestinate, dove si nascondono per
sfuggire allo spazzino elettronico. Tra quali file? In quale pertugio
di quale server? Troveranno ancora qualche mouse caritatevole che,
cliccandole, possa dar loro voce e visibilità? Il mio cervello
funziona al ritmo del ventilatore asmatico che frulla sopra la mia
testa. Il silenzio sta avanzando dai quattro angoli della stanza. Sta
per stritolarmi. Anche dalla finestra non filtra alcun rumore chiaro.
Solo suoni feltrati: strascichii.
La
vedo, la osservo, capisco che sta prendendo una decisione: con un
volo arcuato va a sfidare il pesante drappeggio della tenda, imitando
per qualche istante il muoversi impazzito delle falene. Poi si
arrende zampettando nella concavità ombrosa del tessuto.
Aspetto
l'attimo, lo stimolo che ti fa diventare le dita incontinenti. E
batti sulla tastiera come un fabbro. Come quando campavo scrivendo
per la televisione. Indugiavo sull'apertura del notiziario fino a
pochi minuti dalla messa in onda. Come il paracadutista coraggioso
che aspetta gli ultimi istanti utili per tirare la cordicella. Non
sempre funziona, però.
La
mosca fa capolino dalla piega più profonda e inizia a disegnare
arabeschi tra le volute di fumo della sigaretta. Poi si avvicina alle
pale del ventilatore, per nulla intimorita dalle sciabolate. Lo
spostamento d'aria blocca per un istante il volo e la mosca rimane
ferma come un'aquila controvento. Spicca il volo, stranamente decisa
su traiettoria e atterraggio. Sceglie la foto, quella di Chiara e
Giusy, sorridenti tutte e due. Eravamo in montagna; sullo sfondo
paesaggi da cartolina: verde, blu, in lontananza il bianco delle nevi
perenni. Passeggia sul berretto di Chiara, di diverse misure più
grande. Sembra annusare l'acrilico blu, per nulla soddisfatta del
risultato olfattivo. Giusy guarda perplessa, gli occhi paiono
stringersi impercettibilmente, per la rabbia rivolta a quell'insetto
che ha l'ardire di importunare la bimba, la sua bimba.
Quel
giorno andammo nel mondo incantato della malga Fane, Chiara, cinque
anni di capricci, non ne voleva sapere di arrampicarsi su per la
costa. Si mise a piangere, buttandosi platealmente a terra, piena di
tensione selvatica. Il primo tentativo per normalizzare la situazione
toccò a me; dissi qualche parola, ma avevo un tono ridicolo, da
fiction di terz'ordine. Mi ascoltavo dal di fuori e mi facevo rabbia.
Parlando mi sembrava di fare gesti sbagliati o fuori sincrono, il
tutto accentuato dal silenzio prodigioso della montagna.
Ci
pensò Giusy a farla ritornare sulla sua decisione. La prese in
braccio modulandole melodie sperimentate nel tempo; un fado
dolcissimo, languido. Riusciva ad ipnotizzarla, a portare il suo
respiro al minimo. Un miracolo, quasi. Poi Chiara si decise e si
avviò su per il sentiero, con passo deciso.
La
sera, quella sera, Chiara si addormentò presto, tutta presa nei suoi
sogni infantili. Noi raggiungemmo un pezzo di prato, di fianco alla
bellezza minerale di un torrente.
Si
sentiva stridere le civette, cantare qualche raro grillo. C'erano
alberi che, baciati dalla luna, emergevano prepotentemente dal
paesaggio.
Il
cielo sembrava vicinissimo, molto più vicino della malga Fane. La
notte era di una bellezza difficile da descrivere. Immensa, sonante
nel suo vuoto siderale. Ti senti parte di una lavagna vergine che si
lascia imprimere da qualsiasi fruscio, gemito, odore. Sono gli aromi
e i rumori, le scritture di una notte di giugno. E noi due eravamo
lì, apposta, per lasciarcene imprimere. Forse eravamo un po'
dispiaciuti di avere occhi e narici così minorati rispetto alle
civette, ai grilli. Rispetto all'immenso respiro del bosco.
Ci
siamo seduti nel mezzo del prato: la terra era dura, ma lasciava
trasudare l'ultimo tepore diurno. Nella collina di fianco a noi, un
barbaglio infinitesimale di luce, lasciava intendere la presenza di
un'auto: ma era l'unico indizio tecnologico nell'Universo che avevamo
di fronte. Questo lapillo mi diede la forza di rollarmi una
sigaretta.
Guardavo
le stelle, fumando.
Faceva
freddo.
Faceva
bello.
Abbiamo
guardato le scie degli aerei, cercando di indovinare le destinazioni.
Erano tante le scie che passavano sopra di noi: cocci di vita con le
loro valigie, i loro pensieri, le loro speranze. I loro drammi,
quotidiani e straordinari. Quelle strie bianche sono il nostro
spettacolo per farci pensare alle loro vite. Alle nostre vite.
A
voce bassa, come soldati in trincea, abbiamo parlato dell'Universo
Mondo. Con gli occhi fissi abbiamo sviscerato lo scibile intonso: il
tempo, l'anima, il bene e il male. Abbiamo parlato dei figli, della
vita e della morte. Della focaccia e dello strudel. Del sesso e
dell'amore e dell'affetto e della complicità. Del destino. Man mano
che il discorso si srotolava nel buio, qualche parola,
inevitabilmente, si apriva un varco verso l'incontenibile altezza che
ci sovrastava.
Fin
dove ci potevamo arrampicare in una notte così, se tra noi e il
cielo c'era solo un'occhiata?
Ci
siamo arrampicati, è ovvio, quasi sino a dio. Solo per constatarne
l'inevitabile assenza.
Per
due soldati in trincea, come me e Giusy, non è per nulla semplice
ammettere che non c'è il Generale. Da nessuna parte. Almeno, noi non
l'abbiamo trovato.
Almeno
non quella volta. E sì che quella notte l'abbiamo anche cercato.
Abbiamo scandagliato il cielo per cercarne la presenza, anche un
minimo indizio. Merda, non l'abbiamo trovato. Almeno non quella sera.
La
mosca è stufa della malga Fane. Dopo un ultima danza frenetica
lascia la foto. Indovina il pertugio, un uscita segreta. Spicca il
volo e se ne va...
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