Posso
sbagliare tante cose, ma di questa ne sono sicuro.
Lo
trovo seduto di fianco alla porta finestra che dà sul balcone. Lo
sguardo fisso oltre le tendine bianche. Carmelo, Don Carmelo, è alle
soglie del secolo. Una vita romanzata, ha fatto a piedi tutta
l'Italia, da Bolzano a Messina, per andare a rincontrare quella che
poi sarebbe diventata sua moglie. Ma il vero romanzo sono i suoi
gesti quotidiani.
Il
suo – il nostro - dialogo verte sul silenzio. Raramente i nostri
sguardi si incontrano. Il suo, liquoroso e distante, cerca sempre un
appiglio oltre la mia persona. Quando i nostri occhi si incontrano –
per caso - , lui mi sorride. Il quel lampo ci sono tante cose, ma la
più chiara è l'affetto: puro, surgivo, primigenio.
La
sua figura è schiacciata tra il cuscino che ingentilisce la seduta
della sedia e lo schienale perimetrato da una sagoma di acciaio,
vagamente anni '60. La polla che pare fare da involucro alla sedia e
a Don Carmelo è buona parte del suo mondo. La televisione è sempre
accesa, ma è più che altro un rumore di sottofondo, la colonna
sonora della sua giornata. Le mani sono sempre appoggiate sulle
cosce, le spalle vagamente incurvate; come se fosse sempre in
procinto di alzarsi per andare a correre in risposta di un campanello
che non suona quasi mai. Parla poco, sta sempre in silenzio. Ma non è
mai annoiante. Mai.
Chissà
che silenzio c'è nella sua testa. Che tipo di silenzio. Se è
un silenzio che ronza, che riempie le orecchie. O se è un nulla
ovattato come quello che filtra da un tappo di cera: quello che passa
può essere catalogato come silenzio? Certo, penso di sì.
Oppure
se il suo silenzio è un silenzio liquido, uno di quei silenzi neri
che ti si formano dentro la testa, in un punto imprecisato del
cervello. Un vuoto che si allarga, muto, fino a coprire tutto. Fino
ad assorbire toni e frequenze e vibrazioni e timbri e parole e suoni.
Inghiotte tutto in un gorgo nero e denso.
O
forse no. Forse è un silenzio ipnotico, come quello della goccia che
cade nell'antro di una caverna e accorda su di sé tutti rumori del
mondo che accade. Un rintocco pungente che non si ferma mai.
Mi
perdo delle ore a cercare di capire il suo silenzio. Poi,
puntualmente, ad un certo punto, Don Carmelo sposta il suo orizzonte
da un vuoto luminoso della stanza ai miei occhi. Mette a fuoco: occhi
spalancati, così chiari da sembrare grigi. Dentro i suoi occhi si
muove qualcosa; qualcosa di talmente violento che sembra esplodere
sotto il cristallo curvo della cornea. Un sentimento intenso e
particolare, oggi desueto: è affetto.
Si
alza anche se il campanello non suona. Di scatto.
Poi
ha un lampo negli occhi. Improvviso. Spegne la Tv: il pulsante fa un
suono secco - definitivo. Va verso la sua radio, l'accende.
Giocherella con la manopola della sintonizzazione, va avanti e
indietro, indietro e avanti. Sorride, sorpreso. Come se proprio in
quel momento capisse il complesso meccanismo di un circuito
elettrico, il miracolo delle cose che si concatenano e concepiscono
risultati inaspettati - flussi di particelle che danno voce a
quell'apparecchio sintonizzato sulle onde corte. Suoni lontani,
musiche levantine, strani sussurri, sibili. Lui mi guarda e sorride.
Senti, mi dice, senti. Non guarda la radio, ma vede. Vede gli
zampognari spagnoli, tamburi africani, i lamenti di barcaioli sul
Nilo. Vede guardiani di faro che sorseggiano tè al bergamotto
guardando i cavalloni che si rincorrono, donne bellissime che ballano
al ritmo di sette ottavi, un frate che cammina a capo chino nella
navata centrale di Canterbury. Canti gregoriani, Dixieland anni
Venti, mastodontici tenori orientali. Vede i beduini del Sahara, la
Legione straniera e i nativi dello sterminato West. Inclina la testa,
sorride e mi guarda. Senti, mi dice, senti. Mi vuole fare un regalo,
mi vuole offrire qualcosa. Mi vuole portare per mano nel suo mondo.
Io ci provo ma non ci riesco, non ci riesco ancora. E allora lui
continua a far ruotare la manopola della sintonizzazione, avanti e
indietro, indietro e avanti.
Ecco,
ecco.
Ora
sento, ora vedo.
La
mattanza dei tonni in Sicilia, gente che passeggia per le boulevard e
le avenue, Miles Davis in estasi sulle note di Spanish Key,
prostitute che si affacciano dalle finestre, monaci che cantano i
vespri, ghiaccio che tintinna nei bicchieri, dialoghi soffiati. Lui
capisce, mi sorride, lo ringrazio. Dà un'ultima sventagliata, quasi
rabbiosa. Lingue strane, accenti diversi. La voce di un muezzin
nell'ora della preghiera, il rintocco potente del Big Ben, BBC, le
notizie, il tono gutturale e aspro di un radiocronista tedesco. Con
un colpo secco porta la lancetta della sintonizzazione a fine corsa.
Ora c'è solo un brusio lontano. La risacca del mare, il fruscio del
vento che sbatte contro i rami di un albero, il vagito di un bambino,
rumore di piedi scalzi che calpestano l'erba. Suoni feltrati,
struscii, strascischii. Improvvisamente abbassa il pulsante fino a
farlo combaciare con la scritta “off”. Quel mondo lontano non c'è
più. Il silenzio è rotto dal rumore di uno sciacquone.
Mi
appoggia il palmo della mano sulla spalla, mi scarruffa i capelli.
-
Vai che è tardi – dice in un fado dolcissimo – vai a casa.
Onorami ancora della tua visita, in futuro”.
Non
mancherò. Don Carmelo, non mancherò...
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